(Fabrizio Dassano)
Nel mondo che cambia perché la pandemia l’ha cambiato, cambiano anche le vacanze, oltre ai terrorizzanti dati sul precipitare del Pil. Si va a singhiozzo perché un po’ si lavora e un po’ no.
I dipendenti privati devono districarsi tra telelavoro e giorni di cassa integrazione dimenticandosi la scrivania “personale” in ufficio, quella addobbata con ricordini, foto dei figli o babaccetti vari.
Si andrà in ufficio solo per reale necessità prenotando il proprio arrivo. Le vacanze per i liberi professionisti al mare col pc sono un costante telelavoro tra spiaggia e appartamento e conversazioni al telefonino.
I lavoratori “agili” si recano sul lavoro a giorni alterni: così i fine settimana si allungano e, chi può, scappa al mare. Persino mete popolari in Liguria, scansate per il sovraffollamento degli anni passati, tornano in auge per la bassa concentrazione turistica determinata non solo dalla paura, ma dalla nuova grande povertà che è l’ombra di questa accecante luce estiva. Ci si aggiusta con gli appartamenti e interi gruppi familiari convivono e condividono gli spazi comuni.
È in questo contesto che i maschi adulti che russano, generalmente dopo la prima notte vengono cacciati dalla componente femminile a dormire sul balcone: il che a primo acchito non è neppure male per la godibilissima frescura e il poco rumore della “movida” che non c’è più.
Quanto a me, il problema è stato il vento: verso le due del mattino di ieri sognavo di essere su una barca a vela in mezzo ad una tempesta, la veranda sopra di noi sbatteva furiosamente, gli asciugamani da spiaggia appesi volteggiavano in un turbinio continuo, il vento penetrava lenzuolo e coperta facendo un effetto compressore d’aria sul corpo. La corda di fissaggio della veranda oscillava furiosamente colpendomi la testa e le orecchie.
Osservavo il mio compagno di viaggio avvolto nelle coperte sbattute dal vento: l’immagine era quella di un campo d’emergenza a quota 8mila metri. Ma il sonno ci inchiodava in quella situazione. Appena riuscivo a riaddormentarmi, automaticamente sognavo di decollare e planare con tutta la branda.
Il mio compagno di sventura mi svegliava perché il vento rinforzava e dovevamo far su la veranda. Ho eseguito meccanicamente e mi sono ricacciato a letto perché adesso il vento era veramente quasi preoccupante: dai balconi sopra il nostro gli oggetti sbattevano continuamente contro le ringhiere. L’ululato del vento era assordante.
Verso il mattino una rappresentante del popolo femminile dell’appartamento, mossa a pietà, ci ha intimato di rientrare tra il turbinio di costumi da bagno e asciugamani. Così abbiamo fatto su baracca e burattini e siamo rientrati alla chetichella.
Dopo pochi minuti riprendeva subito il solito tragico volare di pacche e spintoni per farci smettere di russare…