(Fabrizio Dassano)

Mi rendo conto che è impossibile parlare d’altro ai tempi del coronavirus Covid 19, che sta modificando i nostri comportamenti quotidiani richiamando tutti ad un senso di responsabilità e che ci ricorda che nella vita non c’è mai nulla di scontato, che nemmeno i comportamenti più sedimentati dal tempo e dalle tradizioni – considerati immutabili come le leggi fondamentali – sono destinati a durare per sempre. Che la caducità dell’uomo può risolversi soltanto con la capacità di rimettersi in gioco in maniera differente da quanto avevamo progettato e che il rispetto delle regole sia un dovere ineludibile per non ledere la comunità sono concetti che fanno difficoltà a far presa, quando si è abituati a fare o pensare di potere fare di tutto, in nome di una scriteriata libertà estrema.

Grazie agli archivi storici comunali che ho potuto consultare appena prima della recentissima chiusura di questa settimana, si apprende che la nostra città, per rimanere al secolo scorso, dovette affrontare diverse emergenze, senza mai però avere un grado di consapevolezza e di informazione pubblica come quella di oggi. Dopo le infezioni dell’800 che portarono la città ad elaborare un progetto per realizzare un lazzaretto a San Lorenzo tra il 1885 e il 1886, si registrò una pesante epidemia di morbillo nel 1912 che portò ad un incremento della mortalità infantile, dramma che tornò allo scoppio della Grande Guerra nel 1915. Si moriva per le complicanze, codificate in encefalite, meningite, polmonite, otite media acuta o intestinali. Il vaccino arrivò solo nel 1963, sviluppato da Maurice Hilleman presso la casa farmaceutica statunitense Merck & Company e poi ancora perfezionato e distribuito nel 1968.

In coda alla Grande Guerra, quindi nell’inverno 1918 e fin quasi a tutto il 1920, imperversò l’epidemia di “Febbre Spagnola” (che di spagnolo non aveva nulla, se non il fatto che a rivelarne per primi l’esistenza furono i giornali di quel Paese neutrale e quindi in regime di libertà di stampa): si contarono decine di milioni di vittime in Europa, in larga parte giovani e precedentemente sani.
A Ivrea nell’inverno 1918/1919 erano ricoverati negli ospedali molti soldati polacchi, ex prigionieri di guerra dell’esercito Austro-Ungarico, afflitti da tifo petecchiale e tubercolosi, provenienti dal grande campo di raccolta e addestramento della nuova armata polacca della ex-regia Mandria di Chivasso.

A questa strage di giovani ragazzi polacchi seguì la “Spagnola” che anche in città e in Canavese mietè moltissime vittime. Le carte conservate in Archivio parlano di “Dissenteria/Influenza”. Purtroppo non ho potuto esaminare le serie posteriori al 1926 per l’applicazione del decreto oggi in vigore che giustamente mi ha costretto stare a casa.

Facciamo un salto temporale quindi e arriviamo all’Asiatica del 1957/58 che di morti ne causò circa 2 milioni: fu una malattia influenzale di origine aviaria nata dal virus H2N2, lo stesso che negli anni 1968 -1969 -1970 causò l’influenza di Hong Kong, pandemia sviluppatasi nell’omonima città, appena meno letale (causò perdite stimate tra le 750.000 e i due milioni di persone) ma che solo in Italia provocò circa 20mila morti e che – allora come adesso, anche se la risonanza mediatica fu certamente inferiore – svuotò le strade e riempì gli ospedali: poiché nel 1969 gli americani erano andati a passeggiare sulla Luna, venne ben presto battezzata “Spaziale”.

Oggi la copertura della comunicazione è abnorme rispetto a quei tempi. Evidentemente anche la stupidità umana ha compiuto passi da gigante superando il progresso umano: se si deve stare in casa, bisogna farlo. Troppo facile invocare la “libertà” di fare quel che vogliamo in materia di aperitivi e movida, sempre sulla bocca di giovani troppo strafottenti.

Evidentemente hanno perduto la memoria storica di quando le regole erano differenti. I loro coetanei di un secolo fa furono comandati di andare a morire in una trincea, e se non andavano all’assalto c’era il plotone d’esecuzione. Forse bisognerebbe insegnare a questi “signorini” un po’ più di storia e picchiettare con un bacchetta di bambù sulle orecchie i loro genitori in un ampio esercizio di rieducazione.