Per il popolo ugandese questa è una settimana speciale.
Giovedì avrei dovuto recarmi in Uganda per partecipare alla cerimonia di beatificazione del comboniano, sacerdote e medico, Giuseppe Ambrosoli. Con Luciana, la figlia Christine Ayoo e tanti amici ci accingevamo ad un pellegrinaggio verso Kalongo, la sperduta località nella savana del nord Uganda dove, nel 1957, Ambrosoli e i suoi confratelli trasformarono un piccolo centro di salute in uno degli ospedali più noti del paese.
Kalongo è una piccola cittadina senza pretese, come tanti villaggi nella regione Achioli, nel nord. Eppure lì sorge l’unico ospedale a disposizione per oltre 300mila persone tra le più povere del Paese.
La località è dominata da una imponente roccia, che, per i venti che ogni notte suscita a causa dell’inversione termica, è chiamata “Montagna del Vento”, in lingua locale Oret. Quando lavorai nell’ospedale di padre Giuseppe, scoprii con sorpresa che portava anche un nome in lingua araba: “Jebel Habub”. Infatti, la montagna del vento era il punto di ritrovo dei mercanti che venivano dal Sudan per commerciare zanne di elefante, armi, cibo e, soprattutto, schiavi. Proprio nel luogo diventato simbolo di schiavitù ed oppressione, i comboniani vollero costruire un ospedale, per la cura e la liberazione dalle malattie, dall’oppressione e dal male.
Per 31 anni ci lavorò Giuseppe, un rampollo della famiglia del “Miele Ambro-soli”: laureatosi a Milano e specializzatosi in Medicina Tropicale a Londra, abbandonò tutto per donare se stesso e la sua straordinaria abilità medica e chirurgica ai più poveri. Negli anni emersero le sue virtù umane e cristiane. Per la gente, in lui viveva uno Spirito nuovo, diverso da quelli in cui credevano e che suscitavano paura e sottomissione. In lui viveva uno spirito di umiltà, donazione, gentilezza, amorevolezza e accettazione del male per renderlo bene.
Quell’uomo si nutriva della preghiera e dei sacramenti, offriva tutto alla Madre del suo Signore che si chiamava Gesù: viveva dell’Amore. Il grande medico dovette soffrire e patire l’esilio per la guerra civile, costretto ad abbandonare l’opera della sua vita, l’ospedale e i malati. Mentre attendeva, nella vicina città di Lira, di poter ritornare all’amata Kalongo, subì una morte prematura. Il 27 marzo 1987, in solitudine, per una grave malaria: “Ajwaka Madit”, il grande medico, si ammalava e moriva senza medici ad assisterlo. Solo e abbandonato come Gesù in croce.
Abbiamo dovuto cancellare il viaggio per una epidemia del virus Ebola che ha colpito l’Uganda, che sconsiglia i viaggi nel paese. La malattia ha provocato lockdown in due distretti del sud ovest, ma anche malati e morti nelle scuole della capitale, con nuove chiusure, dopo i già lunghissimi mesi di interruzione per la pandemia da Covid-19.
L’Uganda è nota per i suoi martiri. Si venerano al sud, a Namugongo presso la capitale, Charles Lwanga e compagni, e al nord, a Paimol, i giovanissimi Jildo Irwa e Daudi Okello, nel santuario a pochi chilometri da Kalongo. Nel cuore dell’Africa, come una perla, ammiriamo un Paese cristiano, purtroppo conosciuto anche per le drammatiche epidemie, come l’AIDS, e le dittature sanguinose.
Sperando contro ogni speranza, sfidando il pericolo, il popolo è già in pellegrinaggio, a piedi, verso la “Montagna del Vento”, protetto dagli angeli custodi, come ha detto nella solenne Messa di inizio del cammino l’arcivescovo di Gulu John Baptist Odama.
Domenica prossima la Chiesa attirerà l’attenzione e susciterà lo stupore di tutto il mondo per questo umile medico dei poveri che ha vissuto pienamente le beatitudini.
Sul monte Oret è stata eretta una croce, luminosa anche di notte: segno di accoglienza e pace per tutti. Sulla sua tomba, il suo motto e il suo messaggio: “Dio è amore, e io sono suo servo per la gente che soffre”.