(Fabrizio Dassano)
Sul finire del secolo XIX e l’inizio del nuovo, l’opinione pubblica fu colpita da due regicidi di matrice anarchica in cui l’idea di sovvertire l’ordine costituito “punendo con la morte” le teste coronate, fu una dimensione terroristica che assunse una tragica consuetudine: nel 1898, Elisa-betta d’Austria, la moglie dell’imperatore Francesco Giuseppe, Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach più conosciuta con il nome di Sissì, fu uccisa in Svizzera dall’italiano Luigi Lucheni che la trafisse con una lima resa acuminata perché non possedeva il danaro per comprare un coltello. Catturato dalla polizia svizzera dichiarò di essere “un anarchico venuto a Ginevra con l’intenzione di uccidere qualsiasi sovrano come esempio per gli altri” in nome dei poveri.
L’anno dopo toccò a Umberto I d’Italia che morì assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci che volle con il suo gesto, vendicare la feroce repressione nel 1894 dei Fasci Siciliani da parte di Crispi e dei moti popolari del 1898, voluta dal governo di Antonio di Rudinì. A Milano, in particolare, a seguito dell’aumento del prezzo della farina e del pane il cui costo cresceva da anni, il popolo insorse e assaltò i forni e la repressione fu fermata nel sangue dalle cannonate sulla folla del generale Bava Beccaris. A circa quarant’anni dall’annessione della Lombardia al regno d’Italia, la situazione economica era così grave che in quarant’anni erano emigrati qualcosa come 519.000 lombardi.
Senza alcuna matrice anarchica nota e con tutte le caratteristiche di un omicidio di vendetta criminale fu invece – molto più in piccolo – l’omicidio del sindaco di Mazzè Carlo Cucatto avvenuto negli ultimi giorni del 1899. Percorrendo ancora oggi via Angelo Boero che collega le frazioni di Mazzè, Tonengo e Casale, all’altezza del civico 41 vi è da quel fatidico avvenimento una lapide in marmo che recita: “Qui la sera del 5 dicembre 1899 per mano sicaria cadeva cadavere il signor Cucatto Carlo sindaco compianto di tutta la popolazione. La desolata consorte colla famiglia depose invocando una prece.
” Il triste fatto – secondo quanto tramandato a chi scrive nel secolo scorso – fu generato dalla personalità violenta dell’assassino, un certo Giovanni Rat nativo di Muriaglio e che viveva con la madre in frazione Tonengo proprio in via Boero Angelo. La miseria e i maltrattamenti selvaggi che riservava alla povera madre vennero ben presto riferiti al sindaco, Carlo Cucatto, il quale intervenì per sanare la situazione di indigenza e redarguire il Rat su quel comportamento inaccettabile.
L’assassino invece di adeguarsi ai miti consigli del suo sindaco, organizzò la vendetta. Si procurò uno “spaciafoss”, (letteralmente: spazza fossi) la classica arma del brigante di strada: un corto fucile ad avancarica con canna a tromba, caricata a mitraglia con chiodi. Si organizzò anche un rifugio sulle rive della vicina Dora Baltea e si mise in attesa. Il momento propizio fu la grandiosa fiera di San Nicola che si teneva e si tiene nella vicina Caluso: martedì 5 dicembre 1899 quasi tutti gli abitanti di Tonengo erano a Caluso tra le bancarelle insieme alla popolazione del circondario. La fiera e il clima di festa erano caratteristiche propizie al disegno criminale di Giovanni Rat.
Il sindaco che ogni tanto passava davanti all’abitazione del Rat per controllare la situazione, quel giorno fu affrontato in strada dall’assassino che gli scaricò addosso il trombone e fuggì. I soccorsi tardarono perché appunto molte persone erano a Caluso e in quel giorno di festa nessuno aveva dato gran peso ad un colpo d’arma da fuoco. Quando arrivarono, ormai era troppo tardi. Il venerdì 8 dicembre vennero eseguiti i funerali con enorme concorso della popolazione e con le note meste della Banda musicale di Caluso. Il feretro venne inumato nella tomba di famiglia al cimitero di Tonengo ove tuttora riposa. L’assassino viveva alla macchia spostandosi nelle selve che costeggiano la Dora Baltea con il sostegno alimentare di qualche familiare.
La sua latitanza durò poco oltre i tre mesi: i Reali Carabinieri erano comunque sulle sue tracce, quando la mattina del 30 marzo 1900 il brigadiere Stefano Cebrari e il carabiniere Augusto Morelli, della stazione di Castellamonte erano di pattuglia nel territorio di Campo Canavese, una frazione di Castellamonte. Secondo le istruzioni ricevute dal comando, in quella zona poteva esserci l’assassino del sindaco di Mazzè, armato e pericoloso. In effetti Giovanni Rat si era nascosto nel fienile della cascina Vignazze. I due carabinieri attendendo invano i rinforzi, erano appostati da più di un’ora nell’aia della cascina e decisero di procedere all’arresto: accostata una scala a pioli egli vi salì, ma nel frattempo l’assassino si alzò da dietro il cumulo del fieno e gli tirò una fucilata a meno di due metri di distanza.
Visto il luccichio dell’arma, il militare fu lesto a gettarsi a terra dove lo raggiunse un’altra scarica senza però colpirlo. Ignorando forse la presenza del carabiniere Morelli, l’assassino si scoprì sporgendo la testa dal fienile. Il Morelli fu lesto a mirare cogliendo nel segno. La narrazione della fine del Rat che si tramandava a Tonengo era ancora più colorita: all’intimidazione di resa del brigadiere Cebrari, Rat rispose con una fucilata senza colpirlo. A quel punto il brigadiere mise il suo copricapo, la famosa “lucerna” di foggia napoleonica, in cima ad un bastone e iniziò a salire la scala a pioli in legno appoggiata al fienile. Il Rat vedendo il cappello uscì fuori imbracciando il fucile.
In quel momento, uscito allo scoperto, il carabiniere Morelli aprì il fuoco freddandolo con il suo moschetto.
Del sanguinoso epilogo del 30 marzo 1900 se ne occupò la “Domenica del Corriere” del successivo 15 aprile 1900 con una tavola in quarta di copertina di Achille Beltrame che illustrava ai lettori la fine dell’assassino del sindaco di Mazzè. Il “magazine” settimanale era un’altra invenzione di successo del “Corriere della sera” e nei primi mesi del 1900 Luigi Albertini era diventato il direttore del quotidiano che dirigeva anche da Colleretto, ove aveva fatto costruire una villa e installare il primo telefono della zona, dopo il suo matrimonio con Piera, proprio nel marzo del 1900, la figlia di Giuseppe Giacosa. Il 1900 fu un anno denso di appuntamenti anche per Ivrea che festeggiava il suo bimillenario. Re Umberto aveva garantito la sua presenza in città, ma il suo assassinio del 29 luglio a Monza, oltre a sconvolgere i piani dei festeggiamenti, scatenò la caccia all’anarchico in Canavese.
A Ivrea viene arrestato infatti l’anarchico Antonio Laner, trentino amico di Gaetano Bresci. I due erano giunti insieme da New York in Francia, poi si erano intrattenuti a Parigi e a Modane si divisero: il Bresci andò a Milano e Laner a Torino. Qui incontrò un altro eporediese, Aprato e con lui raggiunse Ivrea. Alla polizia parve chiaro che questa diaspora di anarchici andasse a finire dove si sapeva che il re sarebbe passato per qualche avvenimento o cerimonia.
Altri canavesani finirono in prigione per sospetto o apologia di regicidio: Giovanni Forno di Pont Canavese, un certo Fontana di Castellamonte arrestato a Vevey dalla polizia elvetica come “disturbatore di funzioni religiose cattoliche” e infine Antonio Curto minatore originario di Vialfrè che giunto dagli Stati Uniti a Modane fu arrestato perché esultava pubblicamente per l’avvenuto regicidio.
Nel 1999, nel centenario della morte del sindaco Cucatto, il discendente Carlo Cuccatto e famiglia posero una seconda epigrafe a fianco della precedente.