(Fabrizio Dassano – Elisa Benedetto)

Nell’ingresso del palazzo del Seminario di via Varmondo a Ivrea esiste ancora una lapide in marmo che riporta i nomi di dieci caduti che erano religiosi, preti e chierici. Perché i religiosi andarono alla guerra? Perché con la coscrizione obbligatoria, figlia della rivoluzione francese dove il cittadino, indipendentemente al suo ruolo sociale doveva concorrere alla difesa della patria, non fu abolita dalla Restaurazione. Nel 1859 l’armata piemontese del regno di Sardegna contava 40 cappellani di reggimento di Fortezza, delle Accademie e delle Scuole militari.

Anche gli altri Stati d’Italia pre-unitari fornivano l’assistenza religiosa ai propri soldati, e via via che furono annessi al Piemonte i cappellani entrarono nel clero castrense subalpino. Nel 1865 gli organici erano al completo con 189 sacerdoti. Da quell’anno il loro numero si ridusse fino a sparire totalmente nel 1878: la svolta anticlericale dopo la presa di Roma del nuovo governo italiano, bandì i religiosi dal regio esercito.

Nella guerra di Eritrea, nel 1896, per soldati caduti ad Adua e a Adìgrat i conforti religiosi arrivarono da pochissimi missionari cappuccini italiani volontari. In Libia, nel 1911, i soldati furono assistiti da pochi sacerdoti reclutati per gli ospedali, e dai cappuccini reclutati dalla Croce Rossa. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, fu anche l’amicizia dell’Arcivescovo di Torino Agostino Richelmy (di madre eporediese, fu vescovo d’Ivrea per qualche anno) con il generale Luigi Cadorna, comandante supremo, a favorire il ritorno nel regio esercito dei preti cattolici. Luigi Cadorna, molto cattolico, era convinto che quelle figure familiari nei paesi d’origine dei soldati, potessero favorire al fronte l’unità dell’esercito e la disciplina oltre all’elemento di conforto religioso per i malati e i moribondi.

Nelle trincee i sacerdoti, come i soldati, provarono sulla loro pelle quanto la guerra fosse una “inutile strage”, come la definì Benedetto XV. Così con la circolare del 9 marzo 1915 Cadorna ristabilì i cappellani che vennero assegnati ai reparti direttamente dai comandi militari: 2.048 nel-l’Esercito, 15 nella Marina, 1 alla Croce rossa, 6 all’Ordine di Malta. Il 1° giugno 1915 monsignor Angelo Lorenzo Bartolomasi, torinese di Pianezza e vescovo ausiliare di Richelmy, fu designato da Benedetto XV “vescovo di campo”: egli impresse una forte impronta all’assistenza spirituale.

A un prete che si rifiutava di andare in trincea, ricordava che il cappellano è “un eroe e un servo inutile. Il tuo posto? È dovunque ognuna di quelle anime che ti sono state affidate corre il pericolo di presentarsi da un momento all’altro al tribunale di Dio. Ma questo è eroismo! Sì, il mondo può chiamarlo eroismo. Ma nel codice apportato da Cristo l’eroismo del mondo in certi casi, come per il parroco in tempo di peste, come il cappellano militare in tempo di guerra, come per il cristiano in tempo di persecuzione, diventa un dovere. Dovete trasformarvi in eroi per poter dire con perfetta semplicità e con tranquilla coscienza: ‘Siamo servi inutili’”.

Il Piemonte fornì il più alto numero di cappellani militari: nei 2.648 del dato nazionale furono 515 di cui 366 cappellani diocesani e 72 religiosi oltre a 77 “aiuto”. La Diocesi di Ivrea fornì 22
cappellani e 2 “aiuto”. Ma 25 mila religiosi rimanendo esclusi dalla cappellania militare si trovarono un moschetto in mano: 15 mila preti e religiosi furono chiamati alle armi, esclusi i parroci titolari di parrocchia, e 10 mila chierici in età di leva (nati dal 1874 al 1900). Numerosi finirono in trincea non senza traumi: i preti in grigioverde dovevano adottare comportamenti contrari alla loro vocazione e missione, come sparare per uccidere il nemico. Tutto questo provocò crisi terribili.

Nota è la “Relazione religiosa e morale” dell’eporediese Don Davide Gariglietti, cappellano del 75° reggimento di fanteria, scritta a Winenne in Belgio il 18 dicembre 1918 che racconta come e dove celebrava la messa e i risultati della risoluzione dei problemi: sulle Alpi prima e poi tra i boschi e nelle trincee delle Argonne e di Reims. I paragrafi della relazione Gariglietti contemplavano: La Messa, La Predicazione, La Pasqua, In trincea, Per i Caduti, e l’Ufficio Notizie.

Tra i cappellani vi fu la medaglia d’argento al valor militare Don Vincenzo Aimino, nato a Borgofranco e ordinato sacerdote ad Aosta. Rimase sulla linea del fronte anche dopo la guerra. Dopo le visite mediche ad Ivrea ed il conseguente addestramento a Torino, il 19 settembre 1916 Don Aimino venne assegnato all’Ospedale da Campo 014 a Perteole (Udine).

Fu nominato Cappellano del VI° Reggimento Alpini, Battaglione “Monte Baldo”, IX Gruppo, impegnato sull’Altipiano di Asiago, dove stazionò fino al dicembre 1917, quando con la rotta di Caporetto, arretrò fino alla linea di resistenza sul Piave. A gennaio fu alla I Battaglia dei Tre Monti, che rappresentò la prima vittoria offensiva italiana dopo Caporetto.

Qui, Don Aimino, grazie alle azioni compiute in località “Case Ruggi”, venne insignito della Medaglia d’argento al Valore Militare con la motivazione: “Raro esempio di coraggio e di spirito del dovere. Seguì costantemente la truppa che andava all’attacco, soccorse i feriti, raccolse i morti e d’iniziativa impiantò vicinissimo alla linea del fuoco un posto di medicazione. Nel periodo critico, mancanti le munizioni in linea, con pochi portaferiti accorse portando personalmente bombe e munizioni ai reparti. Case Ruggi 28, 29, 30 gennaio 1918”. Terminato il conflitto, iniziò la pietosa raccolta delle salme e rimase lassù in servizio presso il Sacrario Militare ed il Tempio Ossario di Bassano del Grappa ininterrottamente fino al 1950. Altre medaglie di bronzo furono concesse a don Pietro Oddonetto, don Domenico Tapparo e don Francesco Vallosio, tutti della Diocesi di Ivrea.

Diversa sorte toccò agli altri dieci religiosi: due soldati della 1a compagnia di sanità di stanza in Albania morirono di malattia. Don Giovanni Levetto, di Pecco, il 15 marzo 1917 e Don Giovanni Giacolono, di Strambino, il 27 settembre dello stesso anno. Don Andrea Cornelio-Petitti, soldato della 9a Compagnia di sanità, nato a Pavone Canavese, morì a Bari per malattia il 15 settembre 1918. Un altro strambinese, don Solutore Panetti, morì a Torino per malattia il 14 ottobre 1918. Don Candido Bondonno, nativo di Alice Castello, morì per i postumi della malattia a Vercelli l’11 giugno 1923. Il chierico Giovanni Bussi, di Rivarolo Canavese era un soldato del 259° reggimento di fanteria della brigata “Murge” che spirò all’ospedaletto da campo n. 46 “per le ferite riportate in combattimento” nello stesso giorno del suo diciannovesimo compleanno il 21 agosto 1917 sull’Hermada nei pressi di Flondar.

Morì invece sul campo in combattimento il chierico Pietro Anrò di Montalto Dora il 22 settembre 1917 sulle pendici del Monte Grappa. Da Foglizzo il chierico Pietro Rainero morì a Palmanova il 1° giugno 1917. Il chierico Pietro Reineri di Loranzè cadde il 3 settembre 1917 sul Monte S. Gabriele e poco distante l’eporediese Michele Faggion, soldato del 281° fanteria della brigata “Foggia”: dopo l’addestramento fu operativa dai primi di settembre nel settore del Monte San Gabriele (oggi Škabrijel). Al comando del VI Corpo d’Armata, reparti del 281° si posero tra la sinistra dell’Isonzo presso Salcano (oggi Solkan) e le Cave di Dol, ma per tutta la prima metà di settembre i reparti continuarono a subire continue perdite, in conseguenza dell’incessante tiro dell’artiglieria nemica e, alcune sortite avversarie che riuscirono a sfondare le nostre linee.

Fra il 13 e il 15 settembre il 281° ed il 282°, decimati dal combattimento, furono inviati in retrovia verso Hum: nei giorni in cui la brigata fu impegnata in prima linea caddero più di 3 mila uomini, tra ufficiali e soldati della truppa. Il giorno prima dello sgombero, il chierico Michele Faggion venne dissolto da una granata e dichiarato “disperso”.