(Graziella Cortese)
Apocalisse e ritorno. È accaduto a volte che gli autori di grandi opere (che fossero scrittori, poeti o registi appunto), tornassero ossessivamente alla loro “creatura” per limarla, modificarla e renderla quanto più vicina all’ideale costituito nella loro immaginazione.
Quella che è stata presentata nei giorni scorsi nelle sale è la versione finale di “Apocalypse Now”: Francis Ford Coppola, a distanza di quarant’anni, ha cercato di rendere ancora più ipnotico e visionario il racconto della guerra in Vietnam.
Soluzioni cromatiche e musiche, ragione e follia, luce ed ombra; nell’osservazione della pellicola, come nella realtà narrata, è difficile tenere separate tutte queste cose.
Il conflitto ha avuto inizio a metà degli anni ’50 e il coinvolgimento degli Stati Uniti in aiuto del Vietnam del Sud non ha portato a una soluzione veloce. La storia è ambientata nel 1969, i combattimenti attraversano le fasi più cruente. Il capitano americano Willard viene incaricato di una missione segreta ai confini con la Cambogia; è già molto provato sia fisicamente che emotivamente da anni di guerra, ma i funzionari del servizio d’informazione militare insistono per l’incarico speciale: dovrà scovare (e uccidere possibilmente) il colonnello Walter Kurtz, un disertore ex ufficiale dei Berretti Verdi, un uomo impazzito che si è barricato nella foresta pluviale e sta conducendo una guerra personale, con un manipolo di soldati e indigeni a lui fedele.
Willard comincia a risalire il fiume che somiglia alla storia della sua vita: non c’è niente che appaia sensato, non si comprende dove abbia termine la ragione e inizi la follia, gli elicotteri si alzano al ritmo della musica di Wagner e il mondo è piegato dalle armi chimiche. Marlon Brando nei panni del colonnello Kurtz, è un ritratto che si conserva nelle cineteche: “non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore”.