(Fabrizio Dassano)

Oggi parliamo di Bon Ton, perché se ne sente parlare sempre di più e forse ce n’è proprio bisogno. Ci sono, sui Social, molti appelli al ritorno del Bon Ton. Ci sono, anche a Ivrea, corsi di Bon Ton rivolti ai giovani che entrano nel mondo scolastico superiore. L’anno scorso in un castello del Canavese si è tenuto addirittura un corso di “Bon Ton a tavola”, per rieducare il nostro villano modo di comportarci di fronte al cibo. Tutta la generazione (me compreso) di genitori cresciuti con il mito propinatoci dal cinema italiano di Tomas Milian in “Er Monnezza”, seguito da “Eccezzziunale… veramente” con Diego Abatantuono, si sta ponendo il problema: dovremo fare rieducazione? Anche perché ormai i nostri figli ci considerano una generazione perduta, quella nata nel benessere e invecchiante nella recessione e nella crisi perpetua.

Dunque, secondo la Treccani il Bon Ton è la traduzione in francese di “buon tono”, cioè un’espressione usata per indicare i modi e i comportamenti educati, eleganti, situazioni che rientrano nel concetto di galateo, buone maniere, conformi a quelle condivise da determinati ambienti sociali. Se prendiamo l’ambiente sociale cittadino, resistono sacche di Bon Ton adeguate, in netto contrasto con gli attacchi di gente nettamente maleducata.

Un capitolo a parte è quello del Bon Ton stradale. Vi faccio un esempio personale: qualche giorno fa, riportare la bicicletta a casa di mio figlio per recuperare l’auto e raggiungere la mia destinazione finale si è rivelata una vera e propria “pista sperimentale” (altro che quella per i monopattini elettrici) di Bon Ton applicato. Dunque, inforco la bici e percorro Via Torino, direzione Nord, poi leggera salita che ti taglia i polpacci ancora semi-addormentati e non allenati, sin quando mi imbatto in una ex-collega in pensione, sempre gentilissima e gradevole, che però mi fa perdere tre minuti in saluti e ricordi vaghi, mentre io devo correre in piazza Lamarmora. Il mio Bon Ton è messo a dura prova ma riesco a spuntarla.

Presto di fronte mi si para un problema grosso: l’anziana signora con un “bicane” al doppio guinzaglio, cioè due cani che come frecce vettoriali si dirigono in direzioni divergenti. Con la bici esito: sono sul marciapiede mentre dovrei andare sulla strada, ma ho paura del treno di auto perfettamente serrate e chiuse a maglia di cingolo di carro armato, pur ferme da un chilometro per la mitica rotonda del 3° ponte. Mi avvicino alla signora che con evidente disappunto ritira i cagnolini con il guinzaglio ad elastico per cedermi il passo e mi dice a voce alta: “Non è mica una pista ciclabile!”.

Faccio finta di niente, e proseguo a slalom tra la gente che trascina i trolley verso la stazione, poi panico. Allo “spazzolone” (laddove la siepe all’incrocio con via Jervis riduce il marciapiede di Via Torino a 27 centimetri di larghezza percorribile) incontro due ragazzi di colore in bici, velocissimi, vestiti di nero che saettano tra i pedoni fiduciosi che il semaforo per attraversare diventerà verde… Non posso competere in prestanza fisica, cedo e l’Ecatombe è scongiurata per un pelo. Scendo dalla bici e la gente si scoccia di far passare non solo la bici, ma anche me a fianco.

Arrivo finalmente a destinazione, mollo la bici e recupero l’auto: mi immetto sul rotondone di Porta Torino, giro a sud per prendere quella del terzo ponte e finalmente svolto in direzione cimitero: la salvezza del parcheggiante! Ma per raggiungerla devo strombazzare, inveendo contro due ciclisti che serpeggiano allegramente tra il traffico pedalando a fianco perché si devono parlare. Segue scambio di apprezzamenti e gestacci. Purtroppo la sperata felicità dura poco: il parcheggio del camposanto è pienissimo e deambulano fastidiosi pedoni che imbracciano pesanti vasi di crisantemi. Accidenti è vero! Si preparano per le ricorrenze. Parcheggio nell’ultima piazzola che resta, più o meno all’altezza di Torre Balfredo, ormai bofonchiando contro Napoleone che ha inventato i cimiteri.

Vado a piedi verso la mia mèta, sempre stando attento ad attraversare perché tra ciclisti e automobilisti non sai chi sono i peggiori. Infatti trovo una bici che quasi mi investe perché ormai nessuno ha o usa più il campanello che dovrebbe essere obbligatorio per legge (anche io non ce l’ho in effetti…).

Giunto ormai esausto all’ultimo attraversamento pedonale sotto la torre di Santo Stefano, sul lungodora, per attraversare bisogna letteralmente buttarsi affidando la propria salvezza ai propri santi preferiti. I “maledetti” su 4 ruote arrivano da due file: è possibile che quello della prima ti faccia passare, ma tu non sai mai se quello della seconda fila farà altrettanto. Allora ti blocchi e cerchi di farti vedere anche da quell’altro, che frena di brutto e ti guarda malissimo e alla fine attraversi.

Certo che li manderesti tutti a stendere, alla faccia del Bon Ton!