(di Susanna Porrino) Nella tensione e nella stranezza di questi giorni di lockdown prolungato è tornato a farmi compagnia “Novecento”, uno dei lavori più apprezzati e conosciuti dello scrittore italiano Alessandro Baricco. Scritto in forma di monologo teatrale, il libro racconta in poco più di una cinquantina di pagine la storia di un uomo che spese tutta la sua vita a bordo di una nave, imparando a conoscere il mondo attraverso i vetri degli oblò e le parole dei passeggeri senza nome e senza volto che affollavano temporaneamente la sua esistenza, assorbendone in silenzio l’essenza e il significato.
Ai suoi occhi, la vastità e l’infinitezza della realtà esterna su quella terraferma su cui non ha mai poggiato piede appaiono spaventosi e inafferrabili, privi di confini e indicazioni in grado di guidare l’uomo nella loro scoperta, così traboccanti di variabili e possibilità entro cui muoversi da generare un senso di vertigine e malessere. Egli apprende dunque il modo di condensare ogni sentimento, ogni scelta e ogni emozione in una vita circoscritta alle pareti della nave, e a sublimarla nelle melodie che crea attraverso il pianoforte, suo unico e immutabile compagno di vita.
Nelle note che prendono forma sotto ai suoi occhi e nella loro limitatezza determinata, il protagonista trova il mezzo per esprimere le mille vite che non ha vissuto, i luoghi che ha sempre osservato solo da lontano, le relazioni a cui si è sottratto.
Esiste un disagio nella vita del pianista, una paura a gettarsi in una ricerca sconfinata in una realtà che lo supera, nel timore di inseguire tutta la vita un senso che non esiste, un errore da cui non si può fuggire, un rimorso che lacera dall’interno.
A suo modo, egli può essere considerato al tempo stesso un personaggio che sceglie di non scegliere nulla e di rimanere eternamente un passo indietro rispetto alla vita, oppure anche una figura che trova il modo di vivere la vita più pura e incorruttibile, incapace di lasciarsi rubare la propria essenza dal tumulto che regna all’esterno.
Forse dovremmo tutti chiederci se in questi anni abbiamo realmente imparato a “scendere dalla nave” o se in fondo ci siamo sempre semplicemente lasciati travolgere dal caos e dalla immensità in cui siamo stati catapultati fin dalla nascita, senza mai riuscire a riconoscervi noi stessi.
Questo tempo di solitudine ci sta insegnando a vederci come individui e non come frammenti di una collettività che ci lascia privi di indipendenza; forse questo ci aiuterà a trovare, nel frastuono della massa, la melodia in cui vogliamo esprimere e far risuonare la nostra vita, arrivando alla fine di questo momento pronti ad appropriarci nuovamente dell’immensità che ci aspetta, senza venirne risucchiati.