(Editoriale)
I cattolici sono cittadini italiani e la Chiesa è al servizio di tutti. In tempi di Coronavirus appare persino più chiaro che in tempi normali. Non solo per le centinaia di migliaia di euro che i vescovi italiani hanno iniettato in tante realtà, affinché potessero far fronte all’emergenza, e che ancora crediamo inietteranno per rispondere alle esigenze dei poveri (e dei nuovi poveri), e per aiutare anche la più piccola parrocchia – ma mai così grande come in questo periodo – a osservare le regole, costose, per la riapertura alle Messe con la partecipazione dei fedeli.
Abbiamo assistito, da domenica sera in poi, al crescere del malcontento generalizzato – cioè non solo dei vescovi italiani e degli addetti ai lavori – per il mancato annuncio della possibilità di dire Messa in pubblico che – permetteteci di sottolinearlo – non è, anche nei modi, come andare a teatro o al supermercato.
L’esigenza di soddisfare la sete di cultura e la fame di pane e companatico sono sacrosante. L’esigenza di soddisfare la fame spirituale lo è altrettanto, e anche di più, per chi irrora la propria vita con l’Eucarestia.
La Chiesa è tale quando si incontra come popolo che vive i sacramenti, e l’Eucarestia per noi non è una manifestazione esterna della nostra fede a cui partecipiamo così come si parteciperebbe a un qualsiasi altro evento. L’Eucarestia è la fonte e il culmine della nostra fede, senza la quale non si vive: è alimento per la fede.
Ecco perché c’è tanto ardore nel chiedere, nel pretendere, che se la vita sociale, economica, civile riprende tra mille cautele, deve poter riprendere – tra altrettante mille cautele – la vita sacramentale ed ecclesiale delle nostre comunità.
Il cittadino è persona responsabile quando sale sul bus, così come quando entra in chiesa.
O forse quello che entra in chiesa è considerato meno responsabile e più indisciplinato, e la chiesa un edificio più contaminante di una fabbrica, un ufficio o una sala da gioco?