(Susanna Porrino)
La cosiddetta “Fase 2” si è rivelata più distensiva e liberatoria del previsto, e, anche se ci si dovrà lentamente abituare a comunicare al di là delle mascherine e della distanza di sicurezza, ha finalmente segnato la reintroduzione della possibilità di una presenza fisica nella relazione con gli altri.
Eppure, a dispetto delle aspettative, se ci sono persone per cui tale evento ha rappresentato una entusiastica liberazione dalla chiusura forzata a cui erano stati sottoposti, ci sono anche individui (anche fra i giovani) che si trovano invece ad accusare la fatica di riadattarsi alla realtà esterna, e che si trovano nuovamente di fronte alle paure e alle conseguenze che esse già prima comportavano: fobie, ansie sociali, disturbi alimentari e momenti di non accettazione di se stessi (che, pur essendo legati alla sfera interiore ed individuale, riflettono un disagio verso l’immagine di noi che ci viene restituita dall’esterno).
Non aveva tutti i torti il filosofo novecentesco Herbert Marcuse, quando accusava la società contemporanea di aver ridotto l’uomo a semplice ingranaggio in un sistema che lo assorbe e ne monopolizza ogni tipo di energia, valorizzandone, come in una merce, esclusivamente il valore d’uso: il tanto discusso principio della “prestazione”, che è arrivato con il tempo a permeare ogni aspetto della vita sociale e relazionale, accompagnato dal timore costante di non riuscire a soddisfare tutti gli standard che la società ci prefigge.
Tornare a far parte di questo sistema può spaventare; e se c’è chi, durante la quarantena, non ha potuto fare altro che rimpiangere i mesi precedenti la pandemia, c’è anche chi solo dopo essersi fermato si è accorto di quanto la pressione del mondo esterno lo avesse ammaccato: come un guerriero che solo al termine del combattimento lascia andare la tensione e scopre per la prima volta il dolore delle proprie ferite.
Tuttavia, se le condizioni esterne possono non essere ottimali per l’individuo, vi è anche nella paura di tornare all’esterno un meccanismo falsato e illusorio che distorce la realtà.
Ciò che noto in maniera fortissima, soprattutto tra i ragazzi della mia generazione, è la totale incapacità di scommettere su se stessi e sulla propria vita, limitandosi a rimanere bloccati nel limbo sospeso della non-scelta, spaventati dall’idea di rimanere delusi nella propria ricerca.
Eppure proprio dall’indecisione deriva l’insoddisfazione verso la propria vita; non siamo fatti per guardare il mondo dalla finestra, ma per scoprirlo passo a passo e scegliere di volta in volta verso quali luoghi direzionarci.
Occorre riscoprire la fiducia in sé e negli altri; circondati da una narrazione che ci dice che nulla è a nostro favore e che ci vuole in costante tensione, bisogna invece imparare a lasciarsi stupire da ciò che di bello ci può accadere, e a scegliere di liberarsi dalla paura di deludere se stessi, per poter stare bene anche in quei contesti in cui l’impressione è sempre quella di non essere all’altezza.