(Susanna Porrino)
Ciò che è accaduto negli Usa dallo scoppio del caso George Floyd ha risvegliato una lotta per i diritti e il riconoscimento della dignità umana che a volte dava l’impressione di non essere più così urgente come un tempo. In una realtà come quella statunitense, che nella sua interculturalità è rimasta forse il territorio che più di ogni altro deve fare i conti con un conflitto ormai storico, si è aperta un’ondata di contestazioni che non ha potuto lasciare indifferenti quei Paesi che, in un passato più o meno recente, si sono visti coinvolti nel ruolo di aggressore più o meno feroce in politiche di stampo razzista o discriminatorio.
Nella nostra Europa, che in realtà da meno di un secolo ha cercato di orientarsi (a volte più nella teoria che nella pratica, anche se comunque con grossi passi avanti rispetto al passato) verso una politica il più possibile inclusiva e paritaria, lontana dalle crudeltà e la ferocia di cui la nostra storia si è macchiata, la protesta si è configurata principalmente come lotta basata sui simboli.
Il dibattito sulla legittimità di sculture e monumenti a personaggi in qualche modo riconducibili a tendenza razziste è stata la prima espressione di un senso di smarrimento diviso tra difficoltà di identificare per sé nuovi modelli e gesti concreti a cui rifarsi e problematicità di un passato difficile da ammettere e da riconoscere, contro cui i principi del politically correct (inteso nella sua accezione positiva) di cui ci siamo fatti portatori in questi anni si vanno a scagliare in maniera scomodamente fragorosa.
Viviamo in un secolo di cambiamenti radicali, difficili da collocare nel tempo. Non solo l’attenzione al rispetto e alla tutela di ogni cultura, sorta dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha rappresentato per il continente un’ondata ideologica di portata assolutamente straordinaria rispetto a un passato in cui la colonizzazione e la “supremazia bianca” erano concetti largamente accettati; ma anche la globalizzazione, con la sua improvvisa cancellazione dei confini e la diffusione di una cultura omogenea e dilatata, ha contribuito all’idea di una storia da riscrivere con tratti del tutto inediti, in cui il passato, con i suoi termini ristretti e i suoi diversi principi, è divenuto fonte di timore e portatore di una realtà quanto mai lontana dalla prospettiva moderna.
Il rifiuto dell’antichità e dei suoi valori non è comunque prerogativa della nostra epoca, e anzi si è riproposto gradualmente e a fasi cicliche in vari momenti, oscuri o intensi, delle vicende umane; e l’attuale è decisamente un momento in cui tante fragilità e debolezze della realtà in cui viviamo stanno emergendo con violenza.
Tuttavia, la negazione non può rappresentare una soluzione al problema, per quanto ne sia un’espressione; l’uomo nel corso della storia ha vantato sia la libertà di darsi dei simboli, sia la libertà di non riconoscervisi più: ma occorre non distogliere lo sguardo dal fatto che quelli contro cui si sta combattendo sono sentimenti che, seppur ben radicati da secoli, caratterizzano tutt’oggi il presente di determinati popoli.
Ed è soprattutto a questo presente che occorre guardare e su cui occorre riflettere, prima di esporsi al rischio di azzerare un passato che, se non amministrato e considerato con cura e accortezza, non solo sarà privato della possibilità di essere riscattato e valorizzato nei suoi aspetti più nobili, ma neanche vedrà scongiurato il pericolo di ripetersi nuovamente; anche attraverso un oblio forzato l’influenza di eventi da cui, pur non volendo, proveniamo, continuerebbe a imporsi in maniera inevitabile, e sarebbe anzi ancora più difficile individuarne e curarne le radici, ben più profonde ed imponenti di un qualsiasi monumento.