(Graziella Cortese)
“Il futuro è storia”: così si presentava al pubblico il film di Terry Gilliam, ormai venticinque anni fa. L’ispirazione del regista era nata dalla visione di un cortometraggio francese, “La jetée” di Chris Marker, un esperimento molto bello di cinema “fotografico”, a immagini ferme, che narra di un uomo dalla vita post-apocalittica in un’epoca in cui cercare la salvezza significa attraversare il tempo.
Il protagonista da bambino era ossessionato da un’immagine violenta: scoprirà che è l’immagine di se stesso che muore.
La pellicola di Gilliam è invece cosparsa di azione, suoni e colori, la trama è funambolica come spesso accade nella filmografia del regista. Anno 2035.
La razza umana è stata quasi del tutto sterminata da un virus letale estremamente contagioso: i pochi superstiti vivono nel sottosuolo capeggiati da gruppi di pseudo-scienziati che cercano di scoprire un antidoto contro il contagio.
Nessuno può salire e respirare l’aria: la superficie terrestre è dominata dagli animali e dalle fiere in libertà, in un paesaggio grigio di freddo e desolazione.
James Cole è un detenuto che sta scontando la sua pena: i carcerati vivono rinchiusi nell’atmosfera lugubre del sottosuolo della Terra, e siccome sono considerati “sacrificabili”, lo stesso Cole viene inviato attraverso la macchina del tempo nel lontano 1996, anno in cui era scoppiata la pandemia, per scoprirne la causa e trovare una soluzione.
Ma per errore James si ritrova nel 1990, qualcosa non ha funzionato, e gli uomini che incontra non credono alle sue farneticanti spiegazioni…
Lo considerano pazzo e lo rinchiudono in un manicomio. L’incontro con il folle Jeffrey Goines e la dottoressa Kathrin Railly avvicineranno il povero Cole alla verità, o a qualcosa di simile.
Si susseguono i paradossi temporali fino all’avvincente finale, che ci pone interrogativi su come considerare gli spazi di vita che stiamo attraversando e sulla nostra idea di libertà.