(Cristina Terribili)
Una ricerca fatta da Swg, attraverso l’Osservatorio continuativo sull’opinione pubblica italiana, e pubblicata da Huffpost, riporta che il 37% degli italiani gradirebbe il reintegro della pena di morte. Malgrado il nostro Paese sia uno tra i più sicuri al mondo si fa sempre e solo riferimento all’insicurezza e al bisogno di inasprire le pene per ottenere giustizia.
A New York, davanti al tribunale dove è stato condannato a 23 anni per stupro e violenza Harvey Weinstein, è stata eretta una statua di Medusa che tiene in mano la testa di Perseo, ad opera dell’italo argentino Luciano Garbati. L’artista, che aveva realizzato quest’opera nel 2008, fa parte di un movimento artistico che desidera vedere da un’altra prospettiva i personaggi della mitologia. In ogni caso la statua fa molto parlare: c’è chi dice che finalmente Medusa si vendica di chi l’ha uccisa, chi ripercorre il mito greco domandandosi come mai la testa in mano di Medusa non sia quella di Poseidone, che l’ha violentata, o di Atena, che l’ha trasformata in mostro. Anche Perseo ha sfruttato la “testa” di Medusa a proprio vantaggio, ma è stato sicuramente l’ultimo in una catena di violenza.
Medusa nel tempo è diventata simbolo della tendenza ad incolpare le vittime di stupro per quanto hanno subito, così come Perseo è il simbolo della società cieca che non riesce a guardare la realtà negli occhi e di riconoscere la verità. Interessante è la risposta ufficiale della fondatrice del movimento Me too, Tarana Burke, che combatte ogni genere di violenza sessuale contro donne, uomini o bambini, la quale dice che la corrente di pensiero da lei creata non desidera la testa di qualcuno, chiarendo che una vittima (in questo caso di violenza sessuale) non sarà mai soddisfatta dalla morte dell’aggressore, perché di aggressori ne è pieno il mondo.
Piuttosto si segnala e ricerca il bisogno di azioni affinché quanto accaduto non accada mai più. La vera giustizia sarà quando si porteranno avanti politiche e culture in cui si educhi e si riabiliti al rispetto e alla responsabilità.
C’è, nelle parole della Burke, quella ricerca di “giustizia riparativa”, di quell’approccio in cui vittima e autore di reato partecipano attivamente alla risoluzione di ciò che ha comportato il reato. La riparazione ha lo scopo di ricucire la frattura sociale generata dal comportamento criminale.
Per questo sarà importante che la vittima possa esprimere i propri sentimenti e mettere in chiaro i propri bisogni ed interessi, che l’autore del reato possa dimostrare di essere anche altro e che la comunità tutta possa accogliere entrambi in un nuovo percorso simbolicamente condiviso.
Tagliare la testa, proporre la pena di morte, è un modo rapido per risolvere un problema senza poterci riflettere, è restituire violenza alla violenza senza che ci sia uno spazio di recupero, di messa alla prova, di riconoscimento di tutto ciò che ha portato a maturare un reato e a come si possano prevenire ed arginare fenomeni a danno di un altro essere umano.
Come dice il neurochirurgo Giulio Maira, il cervello dell’uomo è un cervello emozionale che usa la razionalità. Nel momento in cui noi agiamo attraverso una risposta emotiva, senza permettere alla razionalità di poter essere usata, noi stiamo venendo meno a quella competenza tipicamente umana.
Tutti i movimenti forcaioli sono invece spesso animati da una profonda ingiustizia, da una sete di sangue che rischia di cercare un colpevole a tutti i costi. Essere consapevoli e capaci di analizzare criticamente quello che ci circonda ci richiede uno sforzo non indifferente, ci richiede anche di prenderci il tempo giusto per dare una risposta adeguata, ponderata.
Abbiamo bisogno di ripensare la giustizia affinché le persone tutte possano sentirsi tutelate e garantite senza dover ricorrere allo sterile giustizialismo. Nei Paesi dov’è istituita la pena di morte non sono mai scesi i tassi di criminalità e la storia è già sufficientemente piena di ingiustizie da sperare che non se ne aggiungano altre.
Forse Medusa e Perseo avrebbero dovuto camminare uno al fianco dell’altra per dimostrare che una soluzione alla violenza esiste sempre.