(Susanna Porrino)
Ci siamo abituati a recepire ogni informazione filtrata e modellata in base alle esigenze di comunicazione e all’orientamento che si intende trasmettere a livello mediatico, tanto che diventa occasione di sdegno qualunque occasione in cui un’informazione venga veicolata senz’altro schermo che quello della libertà di esprimere un’idea, per quanto fondata, assolutamente personale.
Lo ha dimostrato molto bene la bufera che si è scatenata a partire dalle affermazioni del virologo Andrea Crisanti, che anche dopo aver dimostrato la fondatezza e ragionevolezza delle proprie parole a proposito del vaccino per il Covid-19 è stato accusato di aver comunque commesso un errore nelle proprie scelte di narrazione, non essendosi preoccupato a sufficienza dell’impatto comunicativo che esso avrebbe comportato.
È impossibile pensare di analizzare ogni aspetto dell’esistente solo ed esclusivamente dal punto di vista sociale. È indubbio che esistano nella nostra società una serie vastissima di problemi di comunicazione che non riusciamo a risolvere, principalmente perché incapaci di trovare un punto di incontro tra visioni completamente opposte che abbiamo ereditato da secoli di riflessione, evoluzione e scambio di elementi culturali.
Sono problematiche, per esempio, le modalità di narrazione di cui disponiamo per parlare di diversità e discriminazione, troppo spesso plasmate su un modello di politically correct che toglie loro ogni tipo di autenticità.
È problematica la nostra narrazione a proposito della bellezza, perché costretta a fare i conti con una componente sensoriale più irrazionale, stimolata da determinate caratteristiche indipendentemente dalla volontà individuale, una componente estetico-culturale, che ci spinge a cercare in determinati canoni la nostra idea di attrazione, e una componente filosofico-emotiva, che ci permette di sviluppare un’attrazione verso cose o persone ad un livello molto più elevato e indecifrabile rispetto alla pura attrazione fisica.
Problematico è il modo in cui comunichiamo attraverso i simboli, che spesso finiscono per diventare elementi commerciali privi di ogni valore sul piano concreto.
Estremamente delicata e complessa è poi la comunicazione a proposito di noi stessi e del modo in cui permettiamo agli altri di scorgere le reali situazioni di benessere e malessere, dietro l’impronta generale attraverso cui rappresentiamo la nostra vita. L’enorme letteratura diffusa in questi anni per ovviare ai problemi sorti nei rapporti interpersonali (dall’estrema tendenza all’oversharing di chi non è in grado di porre un filtro tra la propria dimensione interiore e l’identità del parlante, condividendo fin troppo, all’estremo opposto della completa incapacità di avere rapporti con persone esterne a se stessi, come nel caso degli hikikomori, passando per tutto ciò che sta nel mezzo) sembra quasi mettere in dubbio la nostra natura di animali sociali, che per millenni sono stati in grado di sviluppare linguaggi e modalità per comunicare senza che nessuno si prendesse l’incarico di spiegarne le corrette modalità d’uso.
Eppure la verità è che, nonostante la nostra modernità, siamo ancora costretti ad assecondare una grammatica delle dimensioni sociali che si basa su idee e presupposti non troppo lontani da quelli del passato, anche se vincolati da mezzi e strumenti completamente diversi: tutto nel nostro modo di relazionarci tenta di accordarsi e armonizzarsi con un’immagine che possa funzionare all’interno della società in cui ci muoviamo, e che ha bisogno di essere mossa da noi.
Come ai tempi delle monarchie assolute era fondamentale tenere viva la fede cieca nella Provvidenza Divina che aveva eletto il Sovrano per motivi sconosciuti al resto dell’umanità, così nell’epoca dei media e della comunicazione di massa non è concesso intaccare in maniera troppo evidente gli equilibri su cui si basa la nostra cultura, e in tempi di pandemia non è possibile mettere in dubbio l’efficienza di processi e attività su cui invece i vari Governi stanno basando la propria immagine di affidabilità e un sentimento collettivo di speranza.