(Susanna Porrino)
Esattamente due settimane fa, il 25 novembre, è stata celebrata la Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, una ricorrenza nata come momento di commemorazione e tutela del dolore e dei lutti passati, e come momento di speranza in un futuro più umano e sensibile.
Tuttavia, occorre riconoscere come oggi sia estremamente difficile discutere di questi argomenti, anche in tale giorno; con gli anni esso si è infatti troppo spesso trasformato nella rappresentazione iconica e commerciale di una lotta spietata tra le correnti più estreme del femminismo, da un lato, e una sorta di apatico maschilismo travestito da ragionevolezza dall’altro.
Alle prime si può imputare la colpa di accusare in maniera troppo generalizzante l’intero genere maschile e di aver perso gran parte della propria lucidità originaria nel tentativo di conciliare insieme esigenze e reclami in ambito sociale, civile, culturale e giuridico; d’altro canto, coloro che vi si oppongono si mostrano però incapaci sia di riconoscere la legittimità da cui tali proteste sono state inizialmente mosse sia di disporre della delicatezza necessaria nell’approccio a eventi e realtà che non possono essere additati semplicemente come una sorta di “ossessione” di donne insoddisfatte e lamentose.
Occorre trovare un nucleo comune attorno a cui riportare il cuore del problema della violenza e della discriminazione sulle donne: e tale centro non può che essere la dignità dell’esistenza umana. Il motivo per cui queste due correnti si sono trovate così lontane le une dalle altre è stata proprio la perdita di tale concezione: il femminismo radicale è rimasto sordo alle denunce di uomini che parlavano di violenza e discriminazione maschile, e molti esponenti di questa sorta di negazionismo rispetto ai problemi delle donne hanno perso anche da parte loro il desiderio di ascoltarsi a vicenda.
Occorre però riaprire questo dialogo, soprattutto perché, se la violenza fisica e le discriminazioni civili e lavorative rimangono una questione statisticamente più sentita dal mondo femminile, quello dell’oggettivizzazione del corpo e delle pressioni sociali non è però più un problema che riguardi solamente la vita della donna, perlomeno non nel modo in cui avveniva prima dell’avvento dei media e della nascita di un sentimento di appartenenza alla massa così evidente e marcato. Anche perché è in ogni caso innegabile che anche quelle innovazioni narrative che sembrano rispondere ad idee più moderne, rappresentino comunque un limite e un condizionamento.
È facile per esempio accorgersi di come, a livello narrativo (soprattutto cinematografico), l’idea di donna del focolare tanto in voga fino al secolo scorso e tanto criticato oggi sia stata sostituita da un’immagine di donna indipendente e realizzata con successo nella propria carriera lavorativa (a tal punto da esserne totalmente alienata e assorbita), privatasi della possibilità di coltivare legami affettivi o famigliari per non rinunciare alla propria autonomia ed esaltata per la propria costanza, in grado di influenzare e condizionare allo stesso modo la percezione del pubblico femminile.
Per quanto si tratti di una figura che risponde pienamente alle caratteristiche di una donna emancipata, essa però porta la donna comune a doversi conformare a degli standard e a delle condizioni durissime per poter essere considerata effettivamente all’altezza dell’indipendenza acquisita negli anni.
Allo stesso modo, la “donna angelicata” di cui parlavano i poeti stilnovisti e che oggi appare così lontana è stata spesso e con grande successo sostituita nel cinema odierno da una figura femminile estremamente mascolinizzata, che, pur dovendo rispettare un canone di bellezza estetico e femminile elevatissimo, si presenta con atteggiamenti ed interessi stereotipicamente propri del mondo maschile, denigrando in maniera implicita ma tagliente tutto ciò che le donne hanno coltivato e portato avanti per oltre duemila anni.
Probabilmente non è possibile per l’uomo creare una società totalmente libera da condizionamenti e pressioni sociali; gli stereotipi e i modelli si sostituiscono continuamente l’uno all’altro. Ciò che però è possibile è imparare a scostarsi da essi rimanendo disponibili ad un confronto continuo e aperto con le persone reali che ci circondano.
Eliminare le discriminazioni non significa eliminare le differenze e livellare così la società, quanto piuttosto riconoscere una dignità all’esistenza di ciascun individuo, e costruire in base ad essa tutta la rete di regole e convenzioni sociali. Se non si riesce a comprendere il valore e la ricchezza che ogni uomo e ogni donna hanno dentro di sé non solo non è possibile riconoscere e comprendere fino in fondo la durezza e il dolore che si nasconde dietro ad ogni evento di violenza domestica, fisica, mentale o psicologica che sia.
Né si potrà riuscire a trovare un punto di incontro tra correnti che ormai si scontrano sulla base di idee e dettagli senza riuscire davvero a parlarsi e ad ascoltarsi a vicenda.