(Fabrizio Dassano)
Alle 15,20 del 29 maggio 1913 i Granatieri del 1° reggimento e gli Alpini dei battaglioni Mondovì, Edolo, Ivrea, Saluzzo e Fenestrelle incominciarono a gridare e a lanciare in aria i caschi coloniali di sughero e i cappelli da alpino di fronte a Cirene conquistata. Calmata l’euforia dei soldati il generale Giulio Cesare Tassoni si pose alla testa delle truppe, ordinò a tutti di fermarsi e di restare immobili e in silenzio e solo soletto avanzò tra i cespugli di tamerici, di lentischi e di corbezzolo. Afferrò il binocolo e osservò un gruppo di case arabe disseminate tra tanti orticelli e imponenti rovine romane: era Cirene. F
u composta per l’occasione la canzone “Sotto il cielo di Cirene”, non particolarmente bella e dunque subito soppiantata dalla più nota “Tripoli bel suol d’amore”.
Di quei lontani fatti legati alla campagna di Libia esistono anche testimonianze locali negli ex voto pubblicati in un volume qualche anno fa dallo scrivente e da Elisa Benedetto, dal titolo “Ex voto della Grande Guerra nell’eporediese e nelle valli alpine canavesane” per i tipi di Baima & Ronchetti di Castellamonte. Ad esempio l’ex voto per “grazia ricevuta 1911 – 1912 in Derna, Pietro Burzio di San Bernardo di Ivrea” che raffigura una feroce battaglia e in primo piano un corpo a corpo tra un soldato italiano che colpisce con la baionetta inastata sul fucile un imponente guerrigliero arabo che sta per finire Filippo Burzio a terra, sanguinante accanto ad un altro cadavere arabo. Sulla scena della vita salvata miracolosamente appare la Madonna nera d’Oropa col Bambino e la triplice corona del triregno. Sullo sfondo, dietro ai fichi d’india, accorrono altri soldati italiani. Gli unici personaggi di colore della scena sono la Madonna, Gesù Bambino e gli arabi nemici…
Ma torniamo a Cirene… Essa era stata un’importante colonia greca fondata dai Dori nel 630 a. C. e poi passata alla civiltà latina. Nel 74 a. C. Roma elevò la Cirenaica al rango di provincia e l’area conobbe il suo periodo più florido, diventando snodo principale dei commerci tra Africa ed Europa. La sua floridezza conobbe un nuovo impulso con l’imperatore Adriano. Poi il declino e l’abbandono nel 410 per le scorrerie barbariche e la fine definitiva del controllo romano.
1503 anni dopo, nel 1913 Cirene venne occupata dal Regio Esercito italiano – dopo la fine della guerra con l’Impero Ottomano, durante la “pacificazione” successiva -con 8.700 soldati tra fanteria, alpini e cavalleggeri, 2.300 quadrupedi ed anche 1550 cammelli. Il Genio provvide a creare una cintura di sicurezza con trincee, ridotti e fortini. La sussistenza si occupò del cibo per quella massa di giovani in un territorio che offriva solo piccole quantità di carrube e arance selvatiche.
L’acqua era fornita da una sorgente vecchia di 2000 anni dove la leggenda narrava che Minerva si fosse immersa nuda e dove i filosofi della città, Erastotene, Aristippo, Apollonio e Carnea-de si erano dissetati. Per gli arabi era “Ain Sciahàt”, la sorgente perenne che zampillava da una caverna profonda oltre 300 metri. Il Ministero dell’Istruzione aveva anche inviato degli archeologi per studiare quell’importantissimo luogo.
Le tende bianche, ottagonali della Croce Rossa vennero erette insieme alle baracche della Sussistenza, alle cucine da campo e ai forni per la panificazione sul piazzale dove stava semisepolto il tempio di Apollo. Il clima mite e il rancio abbondante facevano sembrare il mondo in pace. Soltanto la notte qualche sparo di fucile segnalava la presenza di guerriglieri arabi. Dopo il Natale del 1913, ci si stava preparando a festeggiare il Capodanno. Il 28 dicembre c’era un gran lavoro per il “rancio speciale”, perché dall’Italia era arrivato un rifornimento di scatolette di carne, quarti di bue e quintali di spaghetti. Poco dopo il tuono annunciò un temporale.
All’1 e trentacinque il vento aveva strappato via le lamiere e l’acqua entrava copiosa nella grande baracca della sussistenza e i soldati si precipitarono nella grotta della fonte. La furia degli elementi disperdeva muli e cammelli, ribaltava casse e cannoni. Il finimondo durò per tutta la notte e alle prime luci dell’alba si placò.
I soldati iniziarono a girare per il campo semidistrutto e un gruppo entrò nella grande baracca della sussistenza. Un caporale dopo pochi passi inciampò su una donna nuda, senza testa e senza braccia, di marmo. Era una statua dissepolta dalla furia dell’acqua e franata da una parete delle Terme. Il caporale avvisò un capitano del genio, che vide la splendida statua della Venere Anadiomene (“sorgente dal mare”), ordinò di non toccarla e corse ad avvisare il generale Alberto Cavaciocchi. Questi restò folgorato dalla bellezza e ordinò di portarla nella stanza più sicura della sede del comando. Vi rimase per due mesi, durante i quali tutto il corpo di spedizione di Cirene, dagli ufficiali all’ultimo soldato, sfilarono muti e ammirati davanti alla meraviglia della Venere Anadiomene – copia romana di età adrianea di un originale ellenistico, forse del IV secolo della scuola di Prassitele – in quell’improvvisato museo castrense, sorto tra le rovine di quella che fu l’Atene d’Africa. Ma dal Comando di Bengasi, giunse l’ordine di trasportarla con ogni cura e sotto scorta in quella città.
Dopo un anno di permanenza, prese la via del mare e approdò al Museo nazionale delle Terme di Roma. Nel 1914 il ministero delle Colonie promosse un premio di 10.000 lire a chi avesse ritrovato al testa della statua ma la somma deve ancora essere ritirata oggi. La statua era stata descritta dall’archeologo Salvatore Aurigemma che l’aveva esaminata: “…pare uscita or ora dal mare ed è raffigurata in atto di levare mollemente le braccia verso il capo, per strizzare l’acqua di cui sono impregnati i capelli.
Con un moto della persona pieno di flessuosa eleganza, essa mette in tal modo in mostra la divina acerba nudità del suo corpo al quale il marmo pario e il tempo hanno dato un colore avorio d’un effetto sorprendente. La statua ci è giunta priva della testa e delle braccia; pure è tanta l’armoniosa rispondenza di ognuna delle parti del bellissimo corpo, e tale è la morbida grazia del petto dai seni ancora rigidi, del grembo verginale, delle gambe lievemente poggiate al suolo, che anche senza testa e senza braccia noi abbiamo la sensazione della pura perfetta bellezza. Il vestito ricco d’ombre su cui di fianco alla gamba destra della dea fa da sfondo un delfino, serve di sostegno alla statua e dà, per contrasto, una maggiore squisitezza alle linee del superbo corpo giovanile”.
Nell’aula ottagona delle Terme di Diocleziano a Roma la Venere di Cirene rimase indisturbata ed ammirata anche dopo che l’Italia ebbe perduto tutte le sue colonie, come esito della Seconda Guerra Mondiale voluta da Mussolini. Il 30 agosto del 2008, Silvio Berlusconi la restituì al suo amico Muhammar Gheddafi e la statua riprese la via di Bengasi.
Con le rivolte del 2011 che portarono alla morte Gheddafi, vennero assaliti i sotterranei della Banca Commerciale di Bengasi dove era stata collocata la Venere con il tesoro di Cirene che fu rubato e venduto clandestinamente.
Da quel momento la statua è considerata dispersa.