(Michele Curnis)
Tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento redige un commento a Inferno e Purgatorio un anonimo lettore della Commedia, che dal primo editore (Pietro Fanfani) fu chiamato Anonimo Fiorentino. Commentando le terzine sui fiumi dell’alta Italia di Inf. XVI, di cui abbiamo già discorso a lungo, inaspettatamente l’Anonimo menziona il Canavese: «Egli è da sapere che sopra Monferrato et Canavese è uno monte chiamato Veso, il quale divide la Provenza da Italia, et è il principio di monte Appennino […]; et questo monte Appennino, partendosi da monte Veso, onde esce il Po, il quale corre per Lombardia, ricogliendo assai fiumi in sé, et finalmente mette in Romagna nel mare Adriano, sempre si dirizza questo monte verso Ponente; poi, quando viene più oltre verso Romagna, si dirizza verso il Levante». Questa sarebbe l’unica presenza del Canavese in tutti i commenti all’Inferno dantesco, se non si trattasse in realtà di un errore della traduzione manoscritta: dei tre codici che trasmettono l’anonimo commento, soltanto il 1016 della Biblioteca Riccardiana di Firenze (risalente alla fine del XV sec.) presenta questa lezione; gli altri due hanno invece Genovese, ossia lo stesso riferimento geografico già presente nei precedenti commentatori, impegnati a distinguere le regioni dell’alta Italia tra Liguria e Lombardia. Come spesso accade, però, un errore è anche rivelatore della cultura del copista che lo ha commesso: probabilmente chi confezionò la copia del manoscritto Riccardiano, leggendo «Monferrato e Genovese», pensò a una storpiatura del nesso dantesco «Monferrato e Canavese» – la coppia di toponimi che chiude il canto VII del Purgatorio – e decise di correggere dove non era necessario.
Nel 1373, un anno prima della morte, anche Francesco Petrarca si imbattè nella geografia piemontese, dimostrando – da intellettuale spesso in viaggio tra Italia e Francia – una conoscenza superiore a quella di tutti i commentatori danteschi e dello stesso Boccaccio. Il pretesto fu offerto dalla traduzione in latino dell’ultima novella del Decameron (X 10), dedicata a Griselda e al marchese di Saluzzo, la cui storia lo aveva commosso e indotto a diffonderla anche tra chi non conoscesse il volgare italiano.
Petrarca aggiunge alla narrazione un maestoso proemio dedicato alla geografia della vicenda (assente nell’originale di Boccaccio), in cui l’elemento di spicco è sempre il Monviso. Merita riportare il testo latino, che è un autentico pezzo di bravura, retorico e geografico al tempo stesso: «Est in Italiae latus occiduum Vesulus ex Appennini iugis, mons unus altissimus, qui vertice nubila superans, liquido sese ingerit aetheri, mons suapte nobilis natura, sed Padi ortu nobilissimus, qui eius e latere fonte lapsus, exiguo orientem contra sole fertur, mirisque mox tumidus incrementis, brevi spacio decursu, non tantum maximorum unus amnium, sed fluviorum a Vergilio rex dictus. Liguriam gurgite violentus intersecat, dehinc Aemiliam atque Flaminiam, Venetiamque discriminans, multis ad ultimum et ingentibus ostiis, in Adriaticum mare descendit. Caeterum pars illa terrarum, de qua primum dixi, quae et grata planitie et interiectis collibus ac montibus circumflexis, aprica pariter ac iucunda est, atque ab eorum quibus subiacet pede montium nomen tenet, et civitates aliquot et oppida habet egregia» (Seniles XVII 3 = De obedientia ac fide uxoria).
“Al confine occidentale d’Italia c’è una montagna isolata e altissima che si distacca dalle giogaie dell’Appennino, il Monviso, che si erge al di sopra delle nubi, spingendosi fino all’etere. Già celebre di per sé, il Monviso è celeberrimo per l’origine del Po, la cui sorgente sgorga da un suo fianco, scorre verso oriente per poco con scarsa acqua, ma subito si gonfia in modo straordinario, e attraversato un piccolo territorio diventa quel che Virgilio definì non il principale dei corsi d’acqua bensì il re dei fiumi. La sua onda rubesta attraversa la Liguria, per poi separare l’Emilia, la Romagna e il Veneto, e infine sfociare nel mare Adriatico con numerosi e ampi sbocchi. Comunque, quella terra che ho accennato all’inizio, bella per la pianura alternata alle colline e a dolci montagne, soleggiata e amena, prende il nome dal piè dei monti sui quali si sdraia e vanta molte città e importanti roccaforti”.
Nel testo si ritrovano alcuni elementi già noti: la citazione virgiliana, l’uso del sempre virgiliano verbo labor per la sorgente del Po (che è evidente ripresa dantesca), la funzione discriminatoria del fiume nei confronti di varie regioni italiane; ma c’è una denominazione nuova, quel nesso pede montium che sin dalle edizioni cinquecentesche delle opere di Petrarca è stato stampato Pedemontium, ossia il nome proprio del Piemonte.
Grazie a questa sublimazione letteraria, la suggestione del Monviso ebbe fortuna internazionale, visto che Geoffrey Chaucer se ne ricordò nei Canterbury Tales, conservando nel prologo della Novella del chierico il riferimento alla montagna: «A proem to describe those lands renowned / […] / and of Mount Viso, specially, the tall, / whereat the Po, out of a fountain small, / takes its first springing and its tiny source / that eastward ever increases in its course / toward Emilia, Ferrara, and Venice» (The Clarck’s Tale).
Ma ora occorre tornare alla similitudine di Inf. XVI e alla menzione dantesca del Monviso, da cui evidentemente tutto si è originato. Nel 1440 un altro commentatore, l’umanista lombardo Guiniforte Barzizza, fu il primo studioso di Dante che, nella definizione del fiume, si appoggiò anche alla descrizione petrarchesca della pianura piemontese: «Or circa il principio di questo monte Apennino una delle sue coste si leva molto in alto sopra il Piemonte di Lombardia, e fa un gentil colle chiamato Mon Veso, ovvero Vesulo, al piè del quale è situata la nobil terra di Salluzzo; da questo Mon Veso discende un fiume famosissimo, nominato Po, e discorre giù per la pianura di Lombardia a modo che per una valle in verso levante, finché per quattro principali foci, ovvero bocche entra nel mare di Venezia».
Menzionando il territorio di Saluzzo, che non ha nulla a che vedere con il testo dell’Inferno, Guiniforte dimostra infatti di conoscere il proemio alla versione latina della novella boccacciana di Griselda.
Il risultato, in termini funzionali al commento, è l’incrocio di due tradizioni letterarie, proprio come due corsi d’acqua confluenti in un unico e maestoso fiume. Per i lettori della Commedia della metà del XV secolo, i contorni orografici del Piemonte erano ormai ben definiti.