(Susanna Porrino)
Da alcuni giorni circola sul web il filmato di un acceso confronto, al termine di un esame di medicina sostenuto da remoto, tra un professore universitario e una sua studentessa, contro la quale l’insegnante si scaglia con toni particolarmente accesi, provocando l’intervento nella conversazione della madre della ragazza e suscitando l’indignazione di chi ha potuto poi assistere alla scena.
Il video apre spiragli su questioni di notevole portata, prima fra tutte la durezza di un panorama scolastico italiano in cui il docente si sente di fatto autorizzato a scagliarsi in maniera aggressiva e ben poco costruttiva nei confronti dei propri studenti, vantando dalla propria parte gli strumenti necessari per fare valere la propria ragione molto più di quella di chi dipende dal suo giudizio per il proseguimento della propria carriera scolastica e lavorativa. Tuttavia, è particolarmente significativa anche la presenza di un genitore che si sente autorizzato ad invadere un contesto da cui dovrebbe rimanere escluso, per prendere le difese di una ragazza ormai prossima alla laurea e molto più vicina alla definizione di “donna” che a quella di giovane adolescente.
Credo che l’episodio rifletta in maniera molto precisa lo sguardo al tempo stesso critico e bonario con cui gli adulti guardano alle nuove generazioni, mirando a guidarle in ogni loro passo e muovendo non tanto dall’affetto quanto dalla paura e dalla più completa mancanza di fiducia nella loro capacità di muoversi da sole.
Ragazzi che – sia per chi li critichi, sia per chi li guardi con tenerezza – appaiono di fronte allo sguardo adulto come eterni bambini, la cui natura infantile viene alimentata dalla stessa accondiscendenza che i genitori riservano loro nei momenti in cui gli si richiede di dimostrare forza e fermezza. Se i toni utilizzati dal professore possono essere contestati, allo stesso modo può esserlo però l’intervento della madre, che ha di fatto invaso lo spazio fisico e sociale in cui la figlia aveva il diritto di essere un individuo, e non oggetto della discussione fra due soggetti a sé esterni.
Mi domando se la “fluidità” dell’epoca contemporanea – che i maggiori sociologi definiscono come uno dei tratti specifici di questo millennio – non abbia in qualche modo influito su una difficoltà così diffusa a stabilire e rispettare i confini entro cui inizia e si conclude l’individualità di ciascuno, continuamente, anche se in modi diversi, violati e raggirati.
Per quanto dettato dalle migliori intenzioni, il gesto della madre ha di fatto dimostrato l’incapacità di concedere uno spazio in cui la figlia potesse muoversi e scoprire il proprio modo di affrontare la vita e come individuo a sé stante, così come l’assenza di fiducia nell’idea che quel nucleo di individualità pulsante in lei fosse sufficientemente solido e stabile.
L’atteggiamento dell’esaminatore è invece quello di un professionista il cui comportamento dovrebbe essere vincolato da una serie di doveri, ma riflette una tendenza all’aggressività verbale che si estende ben oltre ruolo e carica.
La libertà di espressione, che sia i social, sia la demolizione di un’idea di autorità cui rimanere sottomessi hanno fatto esplodere, lascia come unico valido limite la capacità di ognuno di individuare i confini entro cui le nostre parole e il nostro pensiero possono legittimamente essere usate per attaccare e criticare il pensiero o la posizione altrui.
È un confine spesso e volentieri varcato, nell’ottica narcisistica di difendere esclusivamente il diritto di far valere sé stessi, nelle modalità che si preferiscono, senza alcuna riserva nei confronti delle conseguenze su coloro che sono costretti a subire l’imposizione del giudizio altrui.
Si tratta, d’altra parte, del grande paradosso con cui si sta oggi scontrando il codice etico dei social: dove inizia la censura, e dove finisce il diritto di ognuno di agire, anche ferendo, con le proprie parole?
Solo quando ognuno di noi avrà saputo interiorizzare, al di là di ogni legge, quanto la dignità umana sia un valore che supera qualunque altro diritto, si potrà dare una risposta a questa domanda; e, per farlo, occorre abituarci all’idea che, per quanto la realtà in cui viviamo ci presenti le vite altrui come un palcoscenico su cui esprimere il nostro pensiero tra like e commenti, esse sono ancora, e continueranno ad esserlo, un bene su cui non è possibile far valere alcun diritto di distruzione e mortificazione.