(Susanna Porrino)
In tempo di pre–pandemia, quando i luoghi dell’arte e della cultura erano ancora liberamente accessibili e i problemi di cui tutti parlavano erano di natura più effimera, in questi giorni gli amanti della letteratura europea avrebbero avuto modo e occasione di celebrare il bicentenario della nascita di uno dei poeti più travolgenti e intramontabili del diciannovesimo secolo: Charles Baudelaire.
Un autore poco studiato, perché esponente di una letteratura straniera a cui rimane poco spazio nei programmi scolastici italiani, ma una delle voci più vicine alla sensibilità moderna. A soli 25 anni, era già esponente di una poesia nata per rompere l’ipocrisia e la fede cieca nei valori della tradizione; come altri poeti del suo tempo, si era fatto portatore delle domande scomode sull’esistenza che la società di allora tentava di soffocare dietro il velo di una rispettabile educazione, nell’illusione fondamentale che il denaro e la vita borghese fossero sufficienti a colmare i vuoti di senso da cui in realtà nessun uomo veniva sottratto. Nel mondo disincantato e messo a nudo della poesia di Baudelaire la realtà umana è un paradosso eterno in cui le parole sono la strada attraverso cui denunciare e al tempo stesso cristallizzare la mancanza di risposte, rendendola però il terreno su cui coltivare l’ordine e la bellezza che nascono nell’uomo dal dialogo continuo tra sé e il mondo che lo circonda.
Mi è capitato di vedere di recente un film – “Perfetti sconosciuti”, regia italiana di Paolo Genovese – che è la sconsolante rappresentazione di una società che ha smesso di farsi domande e si è rassegnata a sopravvivere cercando, al posto delle risposte, compromessi che rendano più sopportabili le difficoltà della vita. Seduti intorno ad un tavolo, sei personaggi si pongono come gioco la messa in comune, per alcune ore, di tutto ciò che compare sui propri cellulari; ciò sfocerà nel corso del film in una continua rivelazione di ipocrisie, falsità e tradimenti davanti a cui nessuno di loro apparirà più giustificabile agli occhi dello spettatore.
Anche le parole che essi scrivono (o hanno scritto) sui loro telefoni portano, come i versi del poeta francese, il segno di un’insoddisfazione di fronte alla quale non trovano pace, ma a differenza di queste non hanno nulla da raccontare.
Nascono per rimanere nascoste, agendo contemporaneamente protagonisti e testimoni incontestabili e silenziosi di una, nessuna, centomila altre vite. Tuttavia, mentre le maschere di cui parlava Pirandello si presentavano come le infinite ma ben delineate versioni di un individuo generate nella relazione tra il sé e gli altri (“persone”, appunto, il termine latino che designava le maschere e i ruoli che esse simboleggiavano sul palcoscenico) dietro ai profili virtuali dei protagonisti del film non si nascondono diverse forme di uno stesso individuo, ma solo i resti di quei vuoti e di quelle sofferenze che i personaggi non vogliono o non riescono ad affrontare, e che tentano di riempire in un mondo in cui l’azione concreta sfuma tra i confini astratti del web.
A mancare è sia il confronto con se stessi, da cui quasi tutti i personaggi cercano di rifuggire, sia il dialogo con chi li circonda, compensato dell’interazione silenziosa con uomini e donne oltre lo schermo.
Certo la situazione non è così tragica per tutti gli individui, o almeno non in tutte le situazioni. Penso però, e con discreta sicurezza, che molto più di una persona, e in più di un’occasione, si sia rifugiata in una protetta e rassicurante bolla di realtà virtuale per rifuggire da situazioni o conversazioni reali a cui non voleva esporsi.
Credo che i poeti, tolto il genio artistico che pervade le loro opere, altro non siano che uomini che sono riusciti a rimanere così profondamente immersi nella realtà in tutte le sue spigolosità e meraviglie tanto da imparare a farne proprio e quindi a cantarne ogni suo aspetto. In questo senso, forse tutti noi dovremmo imparare ad essere, a modo nostro, un po’ più simili a loro. Un po’ più profondamente umani, un po’ meno superficialmente virtuali.