Tra realtà e leggenda, la lettera ricevuta da Salvator Gotta
(Fabrizio Dassano)
La damnatio memoriae, locale e non, che persevera sulla figura del romanziere, drammaturgo, sceneggiatore e scrittore per bambini Salvator Gotta (18 maggio 1887, Montalto Dora-7 giugno 1980 Rapallo) non ci impedisce di parlarne in termini letterari.
L’autore di “Piccolo Alpino” fu un fascista di spicco a Ivrea fin dal 1922, ed organizzò il fallimentare incontro del dittatore a Ivrea nel settembre 1925: autore delle parole dell’inno “Giovinezza”, così descriveva nel 1958 l’evento: “Il sindaco di Ivrea, l’avvocato Mario Rossi, brav’uomo, credeva che una visita di Mussolini avrebbe giovato alla città e al partito, per vero allora scarso di adepti.” Così i due andarono a Milano a chiedere direttamente al duce un suo intervento eporediese durante le manovre militari.
L’incontro fu organizzato e Gotta riprendeva: “Qualche giorno dopo venne a Ivrea e noi fascisti lo accogliemmo festosamente nella modesta sede del fascio locale, ma non seppimo organizzargli una di quelle adunate che egli voleva oceaniche. La Piazza del Municipio, quand’egli si affacciò al balcone, era tutt’altro che gremita: piena solo per metà. Per cui se ne andò seccato e noi ebbimo l’impressione che da allora fossero cominciati i guai per la città. Aosta venne creata sede provinciale, ciò che obbligò noi Canavesani ad andare a ritroso come le trote; avevamo Torino a due passi e ci obbligarono a percorrere un centinaio di chilometri per un’unica strada disagevole”.
Il malumore che ne nacque costò la sospensione dal partito di numerosi fascisti locali con Gotta, prima per 4 mesi, poi sine die.
Ma ciò che non fu perdonata dopo la guerra a Gotta, fu la visita che fece al duce ai primi luglio del 1943 per portargli i tre volumi del proprio romanzo Ottocento. Secondo l’autore, l’antisemitismo, la fucilazione di Galeazzo Ciano, suo amico, insieme al destino di suo figlio, combattente per diciotto mesi in Russia e poi internato militare in un campo in Germania per non aver aderito alla repubblica di Salò, lo fecero allontanare dal regime. Una tempistica ristretta.
Ma facciamo un salto indietro, alla Grande guerra: Salvator Gotta dopo un periodo a Ivrea nella Croce rossa militare, diventa tenente d’artiglieria sul Cadore. Dopo Caporetto e la morte dell’amico Nino Oxilia, il colonnello Aldo Pattoni, già tenente del 4° Alpini di Ivrea, lo volle all’Ufficio Infor-mazioni d’Armata e col capitano aviatore Eugenio Gandolfi fondarono l’Ufficio P (propaganda) che si arricchì di scrittori, giornalisti e disegnatori che crearono la rivista “La Trincea”, da distribuire ai soldati. Nell’agosto 1918, inviato dal generale Giardino comandante la 4a Armata, Gotta raggiunse Gabriele d’Annunzio per chiedergli un articolo sul re. Attraversò sul Canal Grande una Venezia completamente deserta e tutta foderata di sacchetti di sabbia, ma d’Annunzio non era alla “Villetta Rossa” dove abitava, ma al Lido, alla 1a Squadriglia Navale.
Introdotto alla presenza del comandante che vestiva la divisa da colonnello di cavalleria, reduce dal clamoroso “Volo su Vienna”, un Gotta timoroso viene accolto benignamente dal vate: “Ragazzo! Vieni, vieni! Ho letto il tuo Figlio inquieto. Devi restare con noi a colazione. Poi vedrò se sia possibile accontentarti”.
Dopo quella giornata memorabile per Salvator Gotta, nel 1926 fu D’annunzio a cercare Gotta perché uno dei sette granatieri con cui aveva organizzato l’occupazione di Fiume nel 1919, Vittorio Rusconi, era impiegato a Ivrea nell’ufficio personale della Soie de Châtillon ed era ritenuto dai fascisti locali, un avversario politico che osteggiava anche l’assunzione di camerati.
Su carta intestata della 1a Squadriglia Navale “Me-mento audere semper” dal Vittoriale, Gotta ricevette quattro grandi fogli di carta Fabriano in cui il vate formulava tra l’altro: “(…) la preghiera di proteggere, contro persecuzioni nascoste ma inique, un de’ Sette Giurati della portentosa notte: Vittorio Rusconi. Intento al suo cotidiano lavoro con diligenza costante, egli è ad ogni forma di attività politica estraneo.”
Ma qui il passo di d’Annunzio che ci interessa: “Salutatemi l’acqua della Dora, il superstite campanile di Santo Stefano e le Quattro Torri. Mastro Paragon Coppella orafo del Vittoriale e cugino della Befana vi offre tre talismani infallibili, magnetici come tre faville della Bandiera. Vi abbraccio. Il Vostro Gabriele d’Annunzio. Il Vittoriale, 18 gennaio 1927.”
Allegata alla lettera vi erano infatti tre spille che portavano incastonate un rubino, uno smeraldo e una perlina. Gotta credette che il vate avesse consultato elegantemente qualche guida turistica di Ivrea per dare più risalto alla propria richiesta e riteneva comunque non essere mai stato il d’Annunzio a Ivrea.
Ci andò lui al Vittoriale per il funerale di d’Annunzio nel 1938, senza così aver mai chiarito fino in fondo la questione.