(Michele Curnis)
Durante l’Ottocento, quando gli studiosi incontravano una parola dantesca che non appartenesse al volgare toscano, cercavano di reperire l’uso di quello stesso termine, o di altro molto simile, in altre lingue regionali d’Italia, anche al fine di additare nell’opera di Dante la ricchezza di un “volgare italiano” già rappresentativo di tutte le regioni della futura nazione.
Gli studi linguistici su Dante registrano, pertanto, una serie nutritissima di rivendicazioni locali fuori dall’area toscana, con l’obbiettivo di dimostrare che nella lingua della Commedia fossero già confluite tutte le latitudini d’Italia, «dal Cenisio alla balza di Scilla».
La via linguistica costituì una strategia efficacissima per trasformare Dante in un antesignano delle idee risorgimentali e dell’unità d’Italia, ossia di un progetto politico che con la realtà storica dei secoli XIII-XIV – e soprattutto con il pensiero politico del Poeta – non ha alcuna attinenza.
Visto che il lessico della prima cantica è quello più popolarmente variegato, non stupisce che proprio da alcune scene infernali siano nati i tentativi di ascrivere a Dante il ricorso a termini in uso nel Piemonte. Per rispondere alla minacciosa esclamazione di Pluto che apre il canto VII (il celebre e misterioso «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»), Virgilio allude alla motivazione superiore che permette il viaggio di Dante negli inferi: «Non è sanza cagion l’andare al cupo: | vuolsi ne l’alto, là dove Michele | fé la vendetta del superbo strupo» (Inf. VII 10-12). Strupo è oggi generalmente spiegato come insano atto di violenza contro Dio, riferito alla ribellione degli angeli capeggiati da Lucifero; foneticamente, non è nient’altro che una metatesi di stupro, già attestata prima del 1292, nel Libro de’ Vizî e delle virtudi di Bono Giamboni (in cui ha il valore di “violenza carnale” che tuttora conserva). I commentatori antichi per lo più lo interpretarono come metafora per “oltraggiosa superbia”, ma Pietro Alighieri introdusse il sospetto che si trattasse di altra parola, sconosciuta: «dicitur sive interpretatur stupro societas sive consortium turpe» (“Stupro si dice, o meglio si interpreta, per associazione o gruppo criminoso”). Il padre Gio-vanni Battista Beccaria (1716-1781), celebre fisico e matematico piemontese, fu il primo a ricercare nell’idioma della sua terra un appiglio per la spiegazione alternativa, e lo trovò nella parola strop, usata specialmente per significare un branco di animali (si veda la definizione nel recentissimo Dizionario di chiaveranese. Paròli ch’a së smarissan di Franco ’d Min, Ciavran 2020: «branco, mandria, gregge, frotta; na strop ëd vachi, “una mandria di mucche”»).
La spiegazione convinse alcuni importanti studiosi, anche se l’etimo piemontese fu presto messo in dubbio. «Ottimamente si adatta alla turma degli angeli ribelli», chiosò il filologo Vincenzo Nannucci (1787-1857), per aggiungere subito dopo: «se non che non deriva dallo strup de’ Piemontesi, ma dal latino barbaro Stropus che significava grex, certus ovium numerus, e per traslato, moltitudine di persone, truppa di gente».
Nel 1859 intervenne persino Vincenzo Monti, per confermare che strupo non fosse metatesi, ma vocabolo perfetto italiano, e vivo nelle due estremità dell’Italia. E ancora nel 1883 Ugo Rosa, nel saggio L’elemento tedesco nel dialetto piemontese. Postille etimologiche, pubblicato a Berlino, inseriva nel suo lessico il lemma strup, spiegandolo come «Branco, moltitudine di animali adunati insieme», citando naturalmente il passo dantesco. Pochi anni dopo, però, la proposta di Beccaria e le riflessioni di chi lo aveva seguito erano già cadute; la plausibilità del significato alternativo di strupo contrastava infatti con la totale assenza di testimonianze parallele.
Giovanni Andrea Scartazzini suggellava la voce della sua Enciclopedia dantesca (1899) con la concessione, subito seguita dalla domanda retorica: «E potrebbe stare. Ma dove è un solo altro esempio di strupo in tale significato?»
Analogo dibattito linguistico nacque a proposito dell’inizio del canto XIV, allorché Dante descrive la contiguità tra la selva dei suicidi e il fossato dove sono puniti i violenti contro Dio: «La dolorosa selva l’è ghirlanda | intorno, come ’l fosso tristo ad essa; | quivi fermammo i passi a randa a randa» (10-12). Il gesuita Giovanni Maria Cornoldi (1822-1892) interpretò la locuzione “a randa a randa” con il significato di “rasente rasente la terra”, basandosi sull’espressione piemontese a ramba. Nell’uso moderno la randa è una vela di forma trapezoidale allacciata all’albero della nave; la parola è considerata di etimologia incerta, a meno che si voglia connettere con l’omonimo antico, randa nel senso di “orlo, riva”, di origine germanica, dalla quale forse dipenderebbe l’accezione marinaresca (come suggerisce il verbo randeggiare, “navigare lungo la costa a minima distanza”).
Rosa, nelle sue Postille etimologiche, si trovò a dover spiegare la relazione tra il piemontese randa, “bastone”, con l’etimo dell’antico tedesco e con il testo di Dante (che egli leggeva nella forma «aranda aranda»); decise quindi di definire randa come «Rasiera, piccolo bastone che passa sull’orlo dello stajo per levarne il colmo» e di parafrasare la locuzione dantesca «“sull’orlo, sul margine”, come il piemontese nello stesso significato di “vicino” ha a broa, ambrova, letteralmente: “sulla proda, sull’orlo”». In questo caso, pertanto, una possibile somiglianza della locuzione dantesca «a randa a randa» (“proprio sul margine”) con un’espressione piemontese sembra dovuta a un più antico substrato germanico (Rand).
La parola forse più celebre che permette di collegare il lessico dantesco al piemontese è piota, che nella Commedia compare due volte, e con accezioni apparentemente distinte. In Inferno XIX, i simoniaci sono conficcati a testa in giù nella pietra livida, e di alcuni emergono le gambe, libere di muoversi nell’aria. È il caso del papa Niccolò III, al quale (e ai cui simili) Dante rivolge veementi parole di biasimo per la responsabilità della corruzione morale della Chiesa. Il dannato ascolta e reagisce dimenando con rabbia le estremità: «E mentr’io li cantava cotai note, | o ira o coscïenza che ’l mordesse, | forte spingava con ambo le piote» (Inf. XIX 118-120). Va rilevato che già molte terzine prima Dante aveva descritto una reazione analoga con un’espressione («Per che lo spirto tutti storse i piedi», 64), di cui adesso sta cercando una variante animalesca. Tutt’altro è il tono di Par. XVII 13, in cui Dante si rivolge all’anima dell’antenato Cacciaguida con l’apostrofe «O cara piota mia», per riconoscerlo come ceppo d’origine della famiglia. Nel piemontese piota designa soprattutto le zampe animali e oggi si ritiene che derivi dal latino plautum, “piatto largo”, di etimologia incerta ma di significato adatto a spiegare il traslato per “piede o pianta del piede”; dunque, estremità inferiore (di un corpo, ed ecco la gamba) oppure basamento, fondamento (di una famiglia, ed ecco il capostipite, la “pianta”, appunto, da cui germoglia una discendenza che giunge fino a Dante).
In ogni caso, ricordando l’agile equivalenza di Pietro Alighieri, piota si spiega bene sin dall’inizio della storia interpretativa della Commedia come planta pedis, permettendo un accostamento al lessico piemontese che nessuno ha mai posto in dubbio; almeno per una volta, i commentatori che hanno cercato un parallelo linguistico regionale sono rimasti d’accordo.