(Michele Curnis)
Nel 1831 il giovane Carlo Alberto di Savoia, appena divenuto re di Sardegna, si rivolse al celebre storico Carlo Botta, nativo di San Giorgio Canavese, perché contribuisse alla diffusione di una notizia dall’effetto tutto politico: l’origine italiana (e non franca o germanica) della casa reale. I Savoia avevano bisogno urgente di presentarsi come una dinastia autenticamente italiana, giacché si andava profilando la questione dell’unità nazionale secondo la prospettiva non soltanto culturale e linguistica ma anche politico-territoriale.
Di conseguenza, chi avesse aspirato a guidare il futuro regno d’Italia, doveva necessariamente risultare legittimato da una ascendenza tutta italica. Com’è noto, non fu Botta a corrispondere alle esigenze del sovrano bensì Luigi Cibrario, che mise da parte la scrupolosità dello storico e si dedicò a un minuto intreccio di leggende e invenzioni. Ne ha scritto recentemente lo storico del Risorgimento, Umberto Levra: «La tesi di Cibrario era l’origine italiana regia di Casa Savoia e qui, nell’invenzione di genealogie e improbabili parentele, diveniva utile affermare anche l’esistenza di un legame parentale con Arduino d’Ivrea, italiano e re, mentre i Savoia delle origini erano stati solo conti».
La questione, pertanto, tornava ad avvitarsi su uno dei personaggi più controversi della storia canavesana, il marchese Arduino. Ma, in tutto questo, come entra Dante? Occorre tornare all’avvicinamento a Carlo Botta da parte di Carlo Alberto, che fu affidato al responsabile dei Regi Archivi di Torino, il conte Luigi Nomis di Cossilla (1793-1859), funzionario e intellettuale di vocazione liberale, molto attivo per il rinnovamento istituzionale del regno di Sardegna. Botta, naturalmente, si dimostrò interessato alle informazioni documentarie che Nomis avrebbe potuto fornirgli («sommamente preziosa per la mia opera sarebbe la notizia, che la real casa di Savoia sia d’origine italiana»), ma aggiunse che sarebbe stato impossibile inserirle all’interno della sua Storia d’Italia, continuazione di quella di Guicciardini, che prendeva avvio dal 1534.
Inoltre, l’opera era ormai pronta per la pubblicazione e sarebbe stato difficoltoso modificarne il testo (avrebbe visto la luce a Parigi nel 1832, in dieci volumi per i tipi di Baudry).
Sebbene il tentativo di assoldare Botta come storico ufficiale di Casa Savoia fosse fallito, Nomis continuò a scrivergli, anche a proposito del Canavese. Rispondendo a un apprezzamento del suo interlocutore su quella terra, il 29 ottobre 1831 Botta gli diceva da Parigi: «Ella ha ben ragione di chiamar bello il nostro Canavese, ma le tempeste lo guastano onde si verifica per un altro conto il verso di Dante».
Il sibillino richiamo al finale del canto VII del Purgatorio (con «Guiglielmo marchese, | per cui e Alessandria e la sua guerra | fa pianger Monferrato e Canavese»), è introdotto sulla base di un «altro conto» (ossia un significato alternativo), provocato dalle tempeste. Che cosa voleva dire Botta? Forse che in quegli anni altre tempeste politiche si erano abbattute sulla sua terra natia, che non cessava di essere sconvolta, proprio come ai tempi di Dante?
L’interpretazione politica è intrigante, ma appare poco probabile, soprattutto per una ragione diplomatica: Botta e Nomis si scrivevano soltanto da pochi mesi, e si erano incontrati solo una volta di persona, nel 1827; le loro lettere sono prive di confidenze politiche. Nomis era inoltre un emissario di Carlo Alberto, che aveva appena beneficiato Botta con una pensione annua e con l’Ordine Civile di Savoia, per cui lo storico si guardava da qualunque commento o allusione negativi sulla gestione del Piemonte (anzi, pensando di tornare alla sua terra, congiungeva la bellezza naturale del luogo alla felicità dovuta a chi la governava: «il rivedere la corona delle mie native montagne, e chi fa che per esse una soavissima aria spiri, sarà dolcissimo episodio della vita mia»; lettera del 20 dicembre 1831). Come si legge anche in altre lettere, soprattutto in riferimento a San Giorgio, le tempeste vanno intese in senso meteorologico: sono le grandinate estive che rovinano o distruggono il raccolto, e fanno piangere il paziente coltivatore.
Il verso dantesco sul Canavese, comunque, ritorna per antifrasi ancora qualche anno più tardi, giacché Nomis nel 1834 progettava di trascorrere l’estate da quelle parti. La chiusa della lettera di risposta di Botta del 25 giugno è tutta per la terra d’origine e i suoi abitatori: «Noi altri Canavesani abbiamo un brutto nome addosso; eppure chi ci conosce bene dice che siamo buona gente, perchè quando il cuore dà fra noi, dà da vero; e se alcuni dicono, che anche questa è qualità da selvaggio, pazienza. Ora il mio cuore è tutto suo e mi rallegro pensando che il suo è tutto mio. Cosi me ne vivo contento, e se saprò ch’ella se ne vive contenta fra questi caldi nel nostro bello e fresco Canavese, sarò contentissimo. Il mio Stanislao ha ancora paura di noi altri Canavesani, non avendo voluto venire in Canavese nell’autunno del 1832: forse egli ha creduto, che vi si pianga ancora, come ai tempi di Dante; ma per Dio, che vi si ride, e siamo buona gente. Ella se lo goda, e vi si ricordi di me».
Il Canavese di Botta, dunque, vive in pace e non piange più; per questo lo storico si rammarica che uno dei suoi più cari amici, il drammaturgo e commerciante torinese Stanislao Marchisio (1773-1859), non lo avesse visitato due anni prima.
Replicando a un parere di Nomis sulla scarsa possibilità di ritrovare fonti nuove e importanti per la storia patria, il 30 dicembre 1833 Botta si era abbandonato a uno sfogo contro l’esaltazione dell’età medioevale, trapuntato di un lessico mordace e allusivo: «Forse in qualche leggendaccia, od in qualche latinaccio di notaio ignorante si potrà rinvenire quanti soldi di pedaggio si pagavano nel passare un fiume, o di dazio per transitare una merce, o quante genuine una comunità era obbligata di pagare al sig. feudatario […]. Gran cosa è nei nostri tempi lo spirito servilmente pedissequo: siamo veramente le pecore cantate dall’Alighieri. Nacque in Edimburgo un uomo di raro ingegno, che scrisse con bella ipotiposi dei castelli, delle stalle, e dei conventi del medio evo. Subito alzossi un grido dall’isole del ferro sino a Reggio in Calabria medio evo, medio evo, medio evo. A sentir gli entelechisti quell’età fu la più fiorita ed eroica del genere umano; e dàlla, dàlla, dàlla, medio evo, medio evo, medio evo; ed ecco uscir fuori un diluvio di storiacce, di romanzacci, di tragediacce, di poemacci sul medio evo. Io conosco un dottore, che tutta volta, che sente nominare medio evo, si leva il cappello per riverenza». La lettera avrebbe sicuramente divertito Manzoni, visto che l’uomo di Edimburgo che tanto piaceva agli scrittori italiani è Walter Scott, l’iniziatore del romanzo storico.
Ovviamente, Dante sta molto al di sopra di questa polemica, e la citazione delle «pecore matte» (Par. V 80, più che non le pecorelle timidette di Purg. III 79-87) rende ossequio alla funzione etica della Commedia, ammonitrice e fustigatrice della società italiana. Alighieri e Scott non sono però gli unici autori a cui pensava Botta, quando rispondeva al conte Nomis: quella del «notaio ignorante» che registra nel suo latinaccio dazi e scaramucce tra i borghi canavesani potrebbe essere una perfida allusione a Pietro Azario, autore del De statu Canapicii liber (che Botta certamente conosceva e che aveva potuto leggere nella edizione di Ludovico Antonio Muratori, Milano 1771).
Ancora una volta, quando si parla di Dante e dei suoi lettori canavesani attraverso i secoli, “tout se tient”.