(Susanna Porrino)

“Quando ho sentito chiamare il mio nome come studente migliore dell’anno, ho vissuto circa quindici secondi di adrenalina, benessere ed entusiasmo. Poi è arrivato il sedicesimo secondo, e ho pensato: tutto qui? Improvvisamente ho sentito il peso di tutte le scelte e le relazioni umane che avevo sacrificato in quell’anno in nome di un titolo. Ho imparato la lezione: lavorare con rigore e disciplina è giusto e importante, ma altrettanto importante è vivere per non avere rimpianti all’arrivo del sedicesimo secondo”.

Sono le parole di Kyle Martin, Top Student della King’s Academy WPB (Florida), che penso possano accompagnare la conclusione di questo anno scolastico, forse uno dei più incerti e complessi degli ultimi anni, e, sicuramente, uno dei più carichi di rimpianti su molti fronti.

I mesi passati tra chiusure e aperture hanno messo in discussione quel modello di produttività incessante e infallibile a cui il mondo occidentale guardava con ammirazione. Il tempo e il modo di inseguire e sviluppare obiettivi e competenze non sono mancati, ma è emersa la consapevolezza che il sapere e l’esperienza non possano ridursi all’esercizio dell’uno e dell’altra all’interno di una stanza chiusa, e che richiedono invece di essere continuamente alimentati e compensati da uno slancio vitale e da un’apertura all’esterno che vada ben oltre una corsa estenuante verso una qualche forma di realizzazione scolastica e lavorativa.

La scuola non deve sostituirsi alla vita, così come non deve divenirne un’inutile e fastidiosa appendice: piuttosto, le due dovrebbero imparare ad arricchirsi reciprocamente, divenendo una il riflesso e la ragion d’essere dell’altra. In tutto quest’anno il mondo dell’istruzione è riuscito a proseguire nonostante le difficoltà, e agli insegnanti ne va riconosciuto il grande merito, ma ha troppe volte rischiato di diventare un luogo di studio e sapere sterile, fonte esclusivamente di stress o monotonia per gli studenti, perché ancora più privo del passato della possibilità di interfacciarsi con una realtà esterna che lo completasse. Saranno i ragazzi stessi a dover imparare a completarlo nei prossimi mesi, in un tempo in cui, se si rende più assente la scuola, si rende invece più presente la vita.

Don Lorenzo Milani, uno dei maggiori portavoce della rivoluzione scolastica del ‘68, condannava le vacanze estive perché “poco democratiche”: tre mesi in cui gli studenti più benestanti potevano permettersi di viaggiare e apprendere in modi e spazi diversi, mentre agli studenti più poveri non rimaneva che la possibilità di spendere il tempo in attività poco utili se non addirittura dannose, dimenticando tutte le capacità apprese durante l’anno e perdendo quasi completamente lo slancio e la motivazione necessarie per riprendere l’anno successivo. Il prete di Barbiana sollevava, in effetti, un problema non così irrilevante e infondato.

Occorre tuttavia riconoscere che, dopo un anno caotico come quello che si sta ora concludendo, i mesi di vacanza probabilmente rappresenteranno per la prima volta un momento di relativa stabilità per i ragazzi, non più costretti a tentare di imparare in un clima di incertezze e continui cambi di rotta ma autorizzati a muoversi in una situazione più tranquilla e definita.

Dovranno dunque diventare loro stessi protagonisti di un tempo che, guidato dalle loro scelte, potrà rivelarsi uno spreco o dare un senso a quel sedicesimo secondo che lo scoraggiamento di fronte a un anno per molti versi limitante sembra saper riempire soltanto di rimpianti; in un periodo in cui sono già stati chiamati ad esercitare un’autonomia maggiore rispetto al normale, i ragazzi oggi sono chiamati a trasformare i giorni che li aspettano inventando nuovi modi e strade per fare della vita una palestra continua di insegnamenti, che sappia unire ciò che è utile a ciò che fa crescere.