(Mario Berardi)
Nel recente scontro in Consiglio dei ministri con i Grillini, il premier Mario Draghi ha alzato la voce ricordando che la riforma della giustizia è uno degli impegni assunti con Bruxelles, in cambio dei 200 miliardi di euro ottenuti (tra prestiti e sussidi a fondo perduto). Dai lavori dell’Ecofin, che ha dato il via libera ai primi 25 miliardi per l’Italia, è emerso sui media che da oggi al 2026 il nostro Paese dovrà ottemperare a 526 condizioni, di cui alcune dirimenti (come le riforme: giudiziaria, fiscale, ecologica, digitale, amministrativa), altre di controllo di lavori puntualmente eseguiti. In questo contesto quante volte Draghi (o il suo successore, nell’ipotesi di salita al Colle) dovrà porre l’aut-aut alla sua rissosa maggioranza parlamentare?
Prevarrà l’unità nazionale auspicata dal Presidente Mattarella o continueremo con la “battaglia delle bandierine” da parte di ogni partito (compresa l’opposizione della Meloni, che contesta quasi tutto, ma non rinuncia ai fondi UE)?
I Pentastellati hanno raggiunto un faticoso armistizio tra Conte e Grillo, ma le ferite sono aperte, anche perché si sono divisi gli stessi gruppi parlamentari: i senatori con l’ex premier, i deputati con l’ex comico e il ministro Di Maio, autore della discussa mediazione con Draghi sulla riforma Cartabia. Ora Conte, d’intesa con l’ex ministro Bonafede, vuole cambiare in Parlamento le norme sulla prescrizione, non escludendo l’ipotesi di uscita dal Governo. Ma con quali prospettive, visti i duri rapporti tra Pd e Lega? Di nuove elezioni con i sondaggi che ipotizzano il destra-centro al 50%? O un nuovo governo Draghi per ridimensionare il ministro degli Esteri?
In casa della Lega le “bandierine” sono due: il blocco dei migranti (impossibile anche per la UE), il referendum sulla giustizia, d’intesa con i radicali, per scavalcare la stessa proposta Cartabia, di fatto svuotandola. In realtà Salvini non ha alternativa a Draghi, perché metà partito, con il ministro Giorgetti, non lo seguirebbe; inoltre oggi è troppo forte la concorrenza della Meloni nell’elettorato tradizionale della destra.
Per i Democratici di Letta la “bandierina” è il ddl Zan sull’omotransfobia, in discussione a Palazzo Madama: il segretario ha respinto la proposta della minoranza del partito (senatori Taricco e Marcucci) di una mediazione con Italia Viva sul discusso concetto antropologico di “identità di genere”, sulle garanzie di libertà di opinione, sull’autonomia della scuola sui temi del gender (anche per bambini di sei anni); il Pd è disposto ad approvare ordini del giorno, ma senza cambiare una virgola del ddl votato alla Camera.
Questa linea radicale contrasta con le mediazioni consentite su altri temi, a cominciare con lo sblocco parziale dei licenziamenti, firmato anche dal ministro del Lavoro Orlando; addirittura il segretario Letta, dopo lo scandalo della multinazionale inglese GKN che ha licenziato via e-mail i 422 lavoratori toscani, ha proposto di rivedere il recentissimo decreto-legge che dà via libera alle aziende, tranne quelle in crisi.
La politica delle “bandierine” rischia di creare una pericolosa frattura tra il premier (che segue gli accordi con Bruxelles, come una sorta di super-commissario) e i partiti che si muovono in ordine sparso, pur all’interno della stessa maggioranza. C’è un doppio problema: di isolare il presidente del Consiglio dalla sua maggioranza parlamentare o di ridurre i partiti, che per la Costituzione sono il perno della vita democratica, a una funzione di secondo piano, di pura supplenza istituzionale.
Senza cambiare colore, le forze politiche devono ripensare il senso dell’unità nazionale, una scelta indispensabile dopo il disastro umano, sociale, economico del Covid: non si può reggere sino al 2026 governando insieme di giorno e litigando aspramente di sera, perché l’opinione pubblica italiana e internazionale non capirebbe uno scenario schizofrenico.
La scelta europea (per alcuni per convinzione, per altri per stato di necessità, in considerazione della gravità della crisi) è senza alternative: può essere migliorata, e anche emendata, in uno spirito di collaborazione, ma senza pensare alle reciproche bandierine. Per restare in campo calcistico, non importa chi segna il goal, è decisivo il risultato del sistema-Paese.