(Michele Curnis)

Come qualunque persona di cultura della loro epoca, i fratelli Giacosa furono attenti lettori di Dante ed ebbero occasione di presentare e pubblicare le loro idee su aspetti specifici della Commedia. Tra Giuseppe e Piero, però, fu senza dubbio il secondo – lo scienziato, lo studioso di fisiologia e di storia della medicina – colui che si accostò al poema con presupposti più solidi e obbiettivi esegetici meglio definiti.

Il Giacosa letterato, uomo di teatro e librettista di fama, aveva pronunciato nel 1898 a Milano una conferenza su “La luce nella Divina Commedia”; Piero ne seguì l’esempio poco più tardi, pubblicando nel 1905 una lettura del canto XXV del Purgatorio sul prestigioso periodico «La rassegna nazionale» di Firenze (vol. CXLIV). Nel 1916, poi, fu invitato a leggere il canto VII del Purgatorio nella Sala di Luca Giordano a Firenze e nel 1921 di nuovo il XXV del Purgatorio presso la Casa di Dante a Roma. Entrambe le conferenze furono subito date alle stampe, diventando volumetti della collana “Lectura Dantis” della Sansoni.

Nei primi anni del Novecento Piero Giacosa era già professore ordinario di Medicina all’Università di Torino; come ha scritto su queste colonne Fabrizio Dassano, l’«operosa attività di ricerca scientifica, alla quale si dedicò sin dai primi anni successivi al conseguimento della laurea […] proseguì poi incessantemente durante tutta la sua vita accademica» (Il Risveglio popolare, 8 Luglio 2021, p. 21).

L’esempio delle letture dantesche dimostra come tale attività non fosse affatto circoscritta all’ambito disciplinare e accademico in cui le sue competenze erano più riconosciute, ma si ampliasse verso altri orizzonti, come la letteratura, la geografia o la storia. Allo stesso tempo, la scelta dei due canti del Purgatorio non fu aleatoria o dettata da ragioni di carattere estetico. Al contrario, per entrambi è possibile rintracciare una motivazione forte, profonda e distinta: nel caso del VII, basterà ricordare che è quello che si conclude con la menzione del Canavese per spiegare l’interesse di Piero, sempre molto attento a valorizzare la storia e la cultura della sua terra d’origine. Il caso del XXV è più complesso, perché inerente alla fisiologia e alla medicina antiche e medioevali, ossia uno dei campi di ricerca dello scienziato.

Quasi tutta la materia di questo canto nasce infatti da una domanda del Dante-personaggio, assorto in una considerazione che lo tormenta: nel precedente aveva visto le anime dei golosi con un aspetto smunto e scheletrico, conseguenza del digiuno di purificazione del loro peccato terreno.

Ma come è possibile – si chiede Dante – che un’entità spirituale come l’anima si modifichi nell’aspetto (la magrezza) a causa di una necessità pratica che non dovrebbe percepire, ossia quella del nutrimento materiale? («Come si può far magro | là dove l’uopo di nodrir non tocca?», Purg. XXV 20-21). Virgilio e Stazio (l’altro poeta romano incontrato durante la salita) rispondono, rispettivamente, facendo ricorso alla mitologia classica e a una constatazione fisica (vv. 22-27), quindi con una estesa trattazione sulla fecondazione umana, lo sviluppo embrionale e le virtù dell’anima che si installa nel nuovo corpo (37-108). Appunto per la trattazione sull’anima vegetativa, sensitiva e razionale, il canto è considerato uno dei più “dottrinali”, dei più filosofici e, di conseguenza, tra i meno “poetici” di tutta la seconda cantica.

Per quanto concerne il contenuto, l’accostamento con cui Giacosa espone i problemi del canto è tipico di uno scienziato, che ricerca la sostanza del problema, attirando poi l’attenzione sul metodo argomentativo e dimostrativo utilizzato dai personaggi. Se l’intento principale delle parole di Virgilio e Stazio è discorrere della generazione del corpo e delle virtù dell’anima, lo sforzo interpretativo di Giacosa prende avvio con un discrimine storico. Per comprendere il pensiero e le nozioni culturali di Dante in fatto di medicina, il commentatore afferma infatti che dobbiamo spogliarci delle nostre conoscenze, generali o specifiche, sulla riproduzione animale e vegetale, e recuperare invece alcuni presupposti della scienza antica.

«Per Dante […] la generazione era solo nota nel suo aspetto superficiale e in una determinata categoria di esseri più prossimi all’uomo: e gli elementi primitivi ed essenziali da cui dipende la formazione del nuovo essere non erano noti a lui nella vera loro essenza e nella funzione di polline e di ovulo; i due principii sessuali se emanavano da sorgenti diverse, erano stimati simili nella sostanza. E questi due principii, seguendo le dottrine fisiologiche e filosofiche non potevano essere se non un’emanazione di quell’elemento che si considerava come il rappresentante della vita, il sangue».

Sulla dottrina dell’anima esposta da Dante per bocca di Stazio, Giacosa esprime un parere conclusivo, senza però argomentarlo troppo: «Quest’anima di Dante e di Stazio non totalmente incorporea, sebbene ancora etimologicamente corrisponde al suo nome di spirito, questa parvenza che rassomiglia in tutto e per tutto alle immagini che possiamo projettare nel fumo, è un’anima leggermente eretica; una vera anima non può avere nulla di corporeo». Evidentemente, a Giacosa interessa molto di più l’esposizione relativa al sangue, che secondo la scienza medioevale si raffina all’interno del corpo, diventando liquido seminale nell’elemento maschile e determinando così la fecondazione dell’elemento femminile; successivamente si sviluppa come embrione («coagulando prima, e poi avviva | ciò che per sua matera fè constare», vv. 50-51), feto (68), e quindi nuovo essere umano dotato di anima («spirito novo, di vertù repleto», 72).

Il giudizio di Giacosa sull’intento dottrinario di Dante a proposito dell’intima unione di anima e corpo non è esente da una critica generale, rivolta praticamente a tutta la cultura antica e medioevale: «Dante fu come i più grandi pensatori umani vittima dell’errore che da secoli persegue l’umanità; l’errore di voler stabilire una relazione tra elementi diversi e dissimili quali sono il reale e l’irreale; fra ciò che ha esistenza fisica e ciò che è all’infuori di tale esistenza.

È possibile che tale relazione esista, ma non la possiamo dimostrare coi nostri processi d’analisi mentale». Appare quanto meno discutibile rimproverare all’autore di un poema sacro e cristiano la sovrapposizione (per di più armonica e dialetticamente feconda) di ragione e fede, specialmente se l’illegittimità di tale innesto deriva da un’acquisizione dell’età contemporanea, frutto dell’illuminismo e del positivismo. Molto più interessante è la conclusione della lettura, allorché Giacosa distingue il materiale interno del poema, per stabilire che quello del canto XXV del Purgatorio «non è poesia. Poesia è la cosa pura, a cui l’animo partecipa intiero: è tutta la realtà, è tutto l’irreale; non è questa faticosa orditura di concetti speciosi, questo sfoggio d’impotenza di una Logica che rinnega sè stessa col voler rendere accessibili dei concetti ad una mente che si proclama da se incapace di comprenderli e che con ciò fa come colui che rompe lo specchio collo stesso oggetto di cui vorrebbe fargli riflettere l’immagine».

Questa speculazione sull’autentica natura della poesia (e sulla conseguente esclusione dall’ambito poetico di tutto quanto non sia conforme a tale natura) anticipa di circa quindici anni un titolo celeberrimo nell’esegesi dantesca del Novecento: La poesia di Dante, il libro che Benedetto Croce pubblicò nel 1921 per l’editore Laterza di Bari, in cui insisteva sul contrasto tra poesia e non-poesia nella Com-media. Ben prima delle semplificazioni a cui il loro pensiero sarebbe andato soggetto, sia Giacosa sia Croce avevano identificato come peculiare della scrittura dantesca l’unione del pensiero (nel senso di strumento del ragionamento logico-razionale) e della fantasia (nel senso di capacità artistica di esprimere l’immaginazione).

Si può valutare, canto per canto, se questa unione sia riuscita perfetta, se Dante abbia ora lasciato più libero corso alla fantasia artistica ora insistito su un’urgenza didascalica o su un particolare erudito, insomma se abbia fatto prevalere la “poesia” o piuttosto la “struttura”.

In ogni caso, è indubbio, ancora oggi, che la sperimentazione poetica della Commedia sia rimasta unica e non ripetuta.

Nella foto: Roma, Casa di Dante (Torre o Palazzetto degli Anguillara): presso questa istituzione, fondata nel 1914 con lo scopo di promuovere e diffondere la conoscenza dell’opera di Dante, il 27 Febbraio 1921 Piero Giacosa lesse il canto XXV del Purgatorio