Entro l’anno, Papa Paolo VI e l’Arcivescovo Oscar Arnulfo Romero saranno proclamati Santi. Tutta la Chiesa ne gioisce e ne gioisco anch’io, anche se verso ambedue ho avuto qualche motivo di difficoltà.

Papa Paolo VI è quello che mi ha nominato vescovo. Il Cardinal Lercaro, arcivescovo di Bologna, aveva concordato con Papa Giovanni XXIII che il vescovo ausiliare monsignor Baroni venisse promosso vescovo di Albenga ed io divenissi il nuovo Ausiliare. Quando Papa Giovanni morì, aveva già firmato la nomina di monsignor Baroni ad Albenga ed i Cardinali poterono ufficializzarla;ma non aveva firmato la mia (spero non intenzionalmente!) e dovetti aspettare la firma del nuovo Papa: Paolo VI, eletto il 21 giugno, firmò la nomina il 10 agosto. A lui quindi devo di aver partecipato al Concilio Vaticano II, sospeso per la morte del Papa, ma che egli aveva voluto continuare, contro le forti spinte (forse anche del mondo Vaticano) perché venisse chiuso. E lui, che probabilmente non l’avrebbe aperto, seppe continuarlo e guidarlo in modo che tutti i Documenti ricevessero approvazioni praticamente unanimi, così da assicurare una loro globale accoglienza. Alle volte, alle Commissioni che preparavano i Documenti suggeriva modifiche dei testi, che deludevano la maggioranza per certe attenuazioni (che non erano però sostanziali), ma che inducevano la minoranza ad aderire, dando così all’approvazione l’aspetto dell’unanimità. L’eccezione fu (e resta) quella del piccolo gruppo dei cosiddetti tradizionalisti (il principale era il pur piissimo arcivescovo francese monsignor Lefebvre) che vedevano la tradizione come blocco anziché continuità nello sviluppo.

PAOLO VI

Un mio intervento, esaltato dalla stampa come proposta di canonizzazione Conciliare di Papa Giovanni XXIII, che avevo maturato all’interno di riflessioni della cosiddetta “officina bolognese” (il Centro avviato da don Giuseppe Dossetti col professor Giuseppe Alberigo), non fu gradito a Paolo VI, che doveva difendersi da chi avrebbe poi voluto analogo procedimento per Papa Pio XII. Fu lui a nominarmi poi Vescovo d’Ivrea: quando poi lo incontrai mi disse che l’aveva fatto perché sapeva che ero… piemontese (aveva conosciuto mio nonno Rodolfo, che era toscano ma viveva e scriveva a Torino!).
Se Papa Giovanni aveva, col Concilio, indicato una Chiesa sempre più fedele a Cristo e alla sua parola ma al servizio dell’intera comunità, fu proprio Paolo VI ad aprirla completamente al mondo, con la visita e il discorso all’ONU, la visita in Terra Santa (dove incontrò il Patriarca Ortodosso Atenagora), con i viaggi in Asia ed Oceania, in Africa ed in America Latina, ma con visite in Italia per occasioni particolari, da Cagliari al Monastero di Subiaco, o ad Udine per il Congresso Eucaristico Nazionale (quando, passando da Venezia, mise la sua stola papale sulle spalle del Patriarca, il cardinal Luciani!).
Via via, Paolo VI portò ad attuare il Concilio, pubblicando, nel 1967, l’Enciclica “Populorum progressio”, suggeritagli dal Movimento conciliare per la Chiesa dei poveri. Durante il Concilio aveva temuto che, nella tensione della guerra fredda, il problema finisse in politica, e preferì assumerlo personalmente risolvendolo con l’Enciclica “Populorum progressio”, documento che diventò poi fondamentale per il tema della pace, tanto che ad essa si richiamarono Papa Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI nelle loro Encicliche a 20 e 40 anni di distanza.
Lui che aveva preparato il laicato italiano alla politica, nell’assistenza agli Universitari Cattolici della Fuci ed ai Laureati Cattolici, ebbe la terribile sofferenza, negli ultimi mesi della sua vita, per il sequestro e l’uccisione dell’Onorevole Moro, uno dei suoi antichi Presidenti. E morì poco dopo, nel giorno della festa della Trasfigurazione (6 agosto 1978). La Chiesa deve tanto a lui, come gliene deve il mondo, per il cammino del Concilio e del Dopoconcilio, e per quello della dignità umana e della pace.

Due anni dopo, nel 1980, moriva in Centro America, nella Repubblica di San Salvador, monsignor Oscar Arnulfo Romero. I dominatori del Paese (i “cafereros”, famiglie che avevano in mano le grandi piantagioni di caffè, e tutto il resto) avevano indotto il Nunzio a nominare Arcivescovo della Capitale non l’Ausiliare del Vescovo defunto, ma il pio monsignor Romero, vescovo della piccola diocesi di Santiago de Maria, considerato più tradizionalista e conservatore. Il nuovo Arcivescovo si rese però conto di quante ingiustizie ed oppressioni si compissero.
La svolta si ebbe con l’assassinio (con i due che l’accompagnavano) dell’amico gesuita padre Rutilio Grande, “colpevole” di difendere i fedeli della sua parrocchia dalle prepotenze e dai soprusi: nella notte di veglia con la gente, monsignor Romero si “convertì”, e capì che il suo compito era farsi promotore e difensore della giustizia. Fonderà una Commissione per la difesa dei diritti umani (collaborerà poi con una giovane avvocata, Marianela Garcia Villas, che più tardi verrà assassinata dalla Polizia), e alla domenica, al termine della Messa in Cattedrale, comunicherà per radio quanto successo nella settimana, fornendo una sorta di bollettino di uccisioni e di sopraffazioni sulla gente del Paese.
Monsignor Romero si recava spesso anche a Roma, dove aveva studiato e dove venerava le tombe degli Apostoli, cercando di incontrare il Papa e gli uffici della Curia, da cui era guardato con diffidenza. Soffrì, più tardi, sentendosi incompreso dal Papa successivo, Giovanni Paolo II: questi, per la sua esperienza personale di polacco sotto la violenta dittatura comunista, lo esorterà a cercare il dialogo con il Governo del suo Paese, che però sotto il pretesto della lotta al comunismo stava in realtà opprimendo la popolazione, uccidendo chi dava fastidio, compresi sacerdoti e catechisti. Paolo VI invece l’aveva esortato a continuare la sua testimonianza evangelica, difendendo i poveri e gli angariati. E – conferma monsignor Romero nel suo diario – questo l’aveva molto confortato.
In un momento cruciale di tensioni e di violenze, il 23 marzo 1980, dopo la Messa domenicale monsignor Romero rivolse dall’altare “agli uomini dell’esercito e in concreto alla base della Guardia Nazionale, della Polizia, delle caserme” un accorato appello: “Voi ammazzate i vostri fratelli campesinos. Davanti all’ordine di ammazzare dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio… Ѐ tempo che recuperiate la vostra coscienza e obbediate alla vostra coscienza piuttosto che agli ordini del peccato… In nome di Dio, allora, in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione”.
Il giorno dopo, mentre celebrava la Messa all’Hospitalito presso cui da un po’ di tempo alloggiava, un uomo, entrato improvvisamente, sparò e lo uccise.

Monsignor Romero

Avrei dovuto incontrare monsignor Romero agli inizi del 1980. Egli aveva chiesto a Jean Goss, il fondatore del MIR (Movimento internazionale per la riconciliazione) di portare un po’ di vescovi europei in Centro America per riconoscere l’autorevolezza ed incoraggiare i vescovi locali, oppressi dalle dittature, e Jean Goss s’era rivolto a Pax Christi internazionale, di cui allora ero Presidente. Avevamo preparato, per il 4-13 gennaio 1980, un viaggio di dieci vescovi (tra cui l’arcivescovo di Vienna, il cardinal König), quando monsignor Romero ci fermò: in Nicaragua erano giunti al potere i Sandinisti, mentre in San Salvador c’era una nuova Giunta di Governo con i democristiani di Napoleon Duarte. Bloccammo il viaggio, ed il 24 marzo monsignor Romero fu ucciso.
Pax Christi organizzò per il 1981 una missione in Centro America (Guatemala, San Salvador, Nicaragua) conclusa con un Convegno a Panama. Avevo partecipato anch’io; a San Salvador fui ospitato nella cameretta dove monsignor Romero aveva dormito negli ultimi tempi, temendo irruzioni in Arcivescovado (anzi, gli ultimi giorni dormiva in una branda presso la Sagrestia dell’Ospedaletto dove poi lo uccisero). Potei così verificare, visitando la sua camera, come monsignor Romero alimentasse il suo apostolato con la Parola di Dio e la teologia, ma insieme con l’attenzione a tutti i problemi che travagliavano la sua Città e la sua Terra. Tornai più volte a San Salvador, ad iniziare dal 1990 per i dieci anni dall’assassinio, e quella volta venne anche monsignor Tonino Bello, ormai Presidente di Pax Christi Italia.

Il ricordo e la preghiera a Paolo VI ci portino a capire ed a vivere sempre più il Concilio (Padre Congar diceva che per capire bene e vivere un Concilio ci vogliono cinquant’anni: non è un caso che sia poi arrivato Papa Francesco!).
E monsignor Romero, che Papa Francesco ha definito “martire”, ci incoraggi a capire e ad operare perché la pace giunge veramente quando si difendono e si fan vivere i poveri.

† Luigi Bettazzi, vescovo emerito