(Michele Curnis)
«Io vi dico che nella poesia noi ci risentiamo veramente uomini e fratelli, e, divisi come pur siamo dalle tendenze politiche e sociali, cozzanti tra noi violentemente, ci riuniamo in essa, come in un tempio e riacquistiamo la coscienza che, volendo in apparenza cose diverse ed opposte, in sostanza tutti sentiamo le stesse cose, vogliamo tutti lo stesso, noi creature mortali, e tutti lavoriamo allo stesso fine. E vi dico anche: Date la poesia, date Dante al popolo; datelo in edizioni popolari senza note o con parche ed ingenue note, e magari come in certi libercoli a un soldo di prima della guerra, che contenevano la dolente storia di Francesca o la terribile del Conte Ugolino». Così diceva Benedetto Croce il 14 Settembre 1920 a Ravenna, inaugurando in qualità di Ministro della Pubblica Istruzione le celebrazioni per il VI centenario della morte di Dante.
Croce parlò in quella occasione, più che come critico, come filosofo politico, insistendo sul valore sociale e collettivo della poesia, in particolare di quella di Dante. La raccomandazione della sua diffusione, poi, anche per mezzo di edizioni non accompagnate da note, purché gli italiani lo leggessero, fraintendendolo «in qualche particolare», ma intendendolo sicuramente «nell’insieme», derivava da un’associazione tipicamente risorgimentale tra il pensiero e l’opera di Dante e un primo progetto di unificazione politica delle regioni d’Italia.
Nel discorso di Croce, insomma, si raccoglieva ancora un’eredità vecchia di un secolo, sull’unione indissolubile tra l’opera profetica di Dante e il destino del popolo italiano. Soltanto nella seconda metà del Novecento, dopo le disillusioni di una nuova guerra mondiale, i lettori italiani di Dante si sarebbero allontanati da tale prospettiva, fino ad abbandonarla completamente, poiché incongruente e anacronistica.
È però indubbio che la funzione educatrice di Dante in chiave storico-nazionale abbia agito per molti decenni, a partire dalle guerre d’indipendenza e raggiungendo forse il culmine negli anni della Prima Guerra Mondiale, dunque ancora nei primi decenni del Novecento.
Nacque appunto da tale funzione l’esigenza di celebrare Dante in un contesto istituzionale, non soltanto nelle città più legate alla sua biografia, come Firenze o Ravenna, ma in tutto il territorio italiano e ovunque siano presenti comunità italofone. Le prime celebrazioni che si possano propriamente definire “nazionali” sono infatti quelle del VI centenario della nascita, nel 1865. A pochissimi anni dalla (non ancora completa) unità d’Italia, il nuovo Stato nazionale aveva urgente necessità di momenti di indiscutibile condivisione: ritenuta simbolo dello spirito italiano, l’opera di Dante si prestava perfettamente – anche a costo di qualche interpolazione e forzatura – a un progetto di questo tipo. «In quegli anni fortunosi di laboriosa ed intensa preparazione politica che seguirono alla proclamazione del regno d’Italia» – come scrisse nel 1921 Federico Ravello – la città di Ivrea dimostrò un interesse speciale nei confronti di Dante, sostenuto anche nei decenni successivi da istituzioni locali di alto prestigio: il Liceo “Carlo Botta”, il Municipio, il Seminario diocesano e l’editore Viassone.
È datato 9 maggio 1865 un verbale della Giunta Municipale, in cui si registra la partecipazione della delegazione eporediese alle celebrazioni che si erano svolte in Piazza Santo Spirito a Firenze pochi giorni prima, alla presenza dei rappresentanti di tutte le province d’Italia (anche Roma e Venezia, ma con le bandiere velate a lutto, segno del non essere ancora parte effettiva del nuovo Regno d’Italia). Accogliendo l’invito del Gonfaloniere del Municipio di Firenze, il delegato di Ivrea aveva deposto nella chiesa di Santa Croce la bandiera del Comune, con un omaggio dalla forte connotazione simbolica. Proprio quell’anno, infatti, Torino aveva ceduto alla città toscana le incombenze di capitale d’Italia, nella fase di transizione e in direzione verso Roma. Ebbene, il Municipio di Ivrea, la seconda città più importante dell’allora provincia di Torino dopo il capoluogo, volle probabilmente confermarne il ruolo di gregaria della capitale anche nella nuova tappa fiorentina, valendosi dell’occasione dantesca.
Il 14 maggio 1865 il re Vittorio Emanuele II, che i comunicati di quei mesi presentavano come il veltro profetizzato in apertura della Commedia (Inf. I 101-111), intervenne nella cerimonia più importante, per scoprire in Piazza Santa Croce la grande statua di Dante realizzata dallo scultore Enrico Pazzi. Quello stesso 14 Maggio Ivrea si impegnò in celebrazioni locali: nel Teatro Civico pronunciò un discorso ufficiale Enrico Casali (1826-1883), professore di lettere italiane presso il Liceo eporediese (che, in ossequio al regio Decreto sulla titolazione degli istituti superiori, proprio quel giorno ricevette il nome di “Carlo Botta”).
Alcuni studenti lessero i loro componimenti ispirati alla memoria di Dante e concluse la celebrazione l’avvocato Clemente Pinoli (padre del più celebre avvocato, collezionista e bibliofilo Galileo Pinoli), declamando alcuni suoi versi di carattere politico, non esenti da arguzie e allusioni satiriche.
L’intervento più importante fu senza dubbio quello di Casali, che non era neppure originario di Ivrea: nato a Reggio Emilia, aveva partecipato come volontario alla prima guerra d’indipendenza, per poi laurearsi in giurisprudenza. L’esperienza patriottico-liberale in favore della causa italiana gli aveva impedito di praticare la professione forense; decise dunque di laurearsi in lettere, partecipò alla seconda guerra d’indipendenza, e successivamente insegnò nei licei di Reggio, Fermo, Ivrea (divenuto nel frattempo Regio Liceo-Ginnasio “Carlo Botta”) e Piacenza (“Mel-chiorre Gioia”), dove morì nel 1883, quando non aveva ancora compiuto 58 anni.
Fu pertanto un «soldato poeta maestro» (così lo ricorda un’epigrafe nell’androne di Palazzo Anguissola da Vigolzone, antica sede del Liceo piacentino) colui che commemorò Dante a Ivrea nel 1865, inaugurando una buona tradizione di dantisti (eporediesi e no) docenti presso il “Botta”.
Nel periodico canavesano «La Dora Baltea» le celebrazioni di quell’anno erano state debitamente annunciate sin dall’11 Marzo, ed è interessante rileggere con quale spirito ci si accostasse alla rievocazione di Dante: «Il pensiero che, dopo lunghi secoli d’onte e di sciagure, di colpe e d’abbiezioni, l’Italia finalmente s’avvia a nuove e forse più superbe glorie, che pur non siano già toccate all’antica regina del mondo, oh certo dovette traversare in quei momenti la mente di chiunque vedesse nel festeggiato Poeta il principio della moderna grandezza italiana, l’autore primo della nostra unificazione filologica, morale e politica, il rivendicatore – non del ghibellinismo – ma del Romano Imperio, il preconizzatore insomma ed il primo preparatore dei moderni trionfi».
È necessario depurare queste parole della farragine retorica che caratterizza lo stile pubblicistico dell’epoca, ma il senso dell’insistenza su Dante si rivela con chiarezza: i moderni trionfi (di Casa Savoia) preludono a una nuova epoca d’oro dell’Italia, che ha appena recuperato unità politica e nazionale, oltre a quella geografica e linguistica; tutti ideali che per primo aveva diffuso l’autore della Commedia e del De vulgari eloquentia (e della cui mancata realizzazione aveva sofferto personalmente le conseguenze, con un ventennale esilio dalla terra patria).
Secondo questa ricostruzione, fedelissima al progetto delle celebrazioni secolari di cui la «Rivista Contemporanea» di Torino si era resa fautrice sin dal 1859, tutta la storia italiana medioevale e moderna risultava un lunghissimo periodo di onte, sciagure, colpe e abiezioni, redento però dalle aspirazioni di un genio delle origini (Dante, “l’inventore” della lingua italiana e della stessa “idea politica” di Italia) e, ovviamente, dalle realizzazioni dello spirito risorgimentale.