(Mario Berardi)
Il drammatico assalto squadristico alla sede romana della Cgil riapre all’improvviso il nodo centrale del rapporto tra la destra e le formazioni neofasciste perché Giorgia Meloni, parlando in Spagna al convegno dell’estrema destra di Vox, ha condannato le violenze romane, ma ha negato di conoscerne le radici, nonostante tutti abbiano visto in tv la presenza dei capi di Forza Nuova davanti alla direzione nazionale del sindacato di Landini, saccheggiata. Con questa scelta la Meloni torna indietro rispetto alla linea di Gianfranco Fini, con la svolta di Fiuggi del ‘95, di abbandonare il Msi e ogni legame con il fascismo, fondando Alleanza Nazionale. Secondo lo stesso Fini, interpellato da “La Stampa”, la leader di FdI avrebbe il timore di perdere una fascia di elettorato.
La questione diviene politicamente più rilevante per la decisione di Salvini di “coprire” la collocazione politica della Meloni, opponendosi all’ipotesi di scioglimento della formazione neofascista Forza Nuova, di cui avevano discusso il premier Draghi e il segretario della Cgil Landini nella visita di solidarietà compiuta dal premier; ora il Governo sembra orientato a seguire il modello Taviani del ‘73: il ministro dell’Interno sciolse Ordine nuovo dopo una sentenza della magistratura. Ma la questione politica nella maggioranza si riaprirà già nella prossima settimana, quando la Camera voterà una mozione Pd-M5S per lo scioglimento di Forza Nuova con il centro-destra contrario.
I fatti di Roma, con la protesta no green-pass apertamente strumentalizzata dai facinorosi, ha mutato anche il dibattito sui ballottaggi di domenica, soprattutto a Roma e Torino. Nella Capitale, nonostante la contrarietà della Raggi, l’ex premier Conte ha dichiarato che voterà per l’ex ministro Gualtieri, candidato del centro-sinistra, mentre la Comunità ebraica ha preso nettamente posizione contro Michetti, centro-destra, per le sue passate dichiarazioni di tono antisemita. Lo stesso Michetti voleva “rimediare”, con una nota antifascista, ma la Meloni l’ha fermato, probabilmente per opportunità politica.
A Torino la musica nei grillini è diversa: Conte non ha preso impegni, nonostante l’appello di Letta per Lo Russo, perché il Movimento è diviso in tre: centrosinistra, centrodestra, scheda bianca; ovvero una formazione che diviene irrilevante, nonostante l’8% del primo voto. Nel centro-destra c’è preoccupazione nella componente moderata che sostiene Damilano: l’on. Osvaldo Napoli e l’ex presidente della Regione Cota hanno espresso timori per le scelte politiche dell’accoppiata Meloni-Salvini.
Sul piano degli avvenimenti sono intanto emersi due indicatori ulteriori della crescente dicotomia centro-periferie. A Grugliasco, nella prima cintura della Metropoli, Stellantis (ex Fiat) annuncia la chiusura del “polo del lusso” avviato da Sergio Marchionne; i mille lavoratori saranno tutti trasferiti al polo elettrico di Mirafiori, ma c’è viva preoccupazione per l’indotto della Maserati di Grugliasco: rischia la crisi. Contestualmente Torino, con un investimento di sette milioni (pagato da Comune, Regione, Camera di Commercio, Fondazioni bancarie…) si è aggiudicata l’evento “Eurovision” del prossimo maggio, battendo Rimini e Roma che avevano rispettivamente offerto 6 e 5 milioni; sarà certamente un’occasione di rilancio turistico, con prevalente beneficio delle strutture ricettive dell’area centrale della Metropoli.
Sul voto torinese di domenica, infine, sarà decisiva la partecipazione, dopo il precedente record negativo del 52%, con punte drammatiche nei quartieri della periferia. Per il bene delle istituzioni democratiche c’è da sperare in un’inversione di marcia, per non avere un sindaco eletto da una minoranza, il 20-25% dei cittadini. Da questa triste esperienza dovrebbe emergere una riflessione approfondita delle forze politiche sui rapporti autentici con il territorio, sulla capacità di cogliere le ansie e le attese della popolazione; e una valutazione sarebbe opportuna anche sul sistema maggioritario che dal 1993 ha sostituito il proporzionale della prima Repubblica.
L’innovazione doveva migliorare il rapporto politica-cittadini: ma è davvero preferibile per le istituzioni democratiche un sistema che affida il potere a una ristretta minoranza, nell’indifferenza della maggioranza della popolazione?