(Susanna Porrino)

“Gone Girl” (nella traduzione italiana “L’amore bugiardo”) è il titolo del libro – poi divenuto un film candidato agli Oscar, con Rosamund Pike e Ben Affleck – che racconta la storia di Amy Dunne: una donna che di fronte al fallimento del proprio matrimonio decide di inscenare il proprio rapimento e omicidio per provocare la condanna a morte del marito. Il romanzo ha avuto un grande successo letterario, ma anche una risposta particolarmente accesa dal punto di vista sociale; accanto a denunce di misoginia per la ideazione di un personaggio femminile così negativo e instabile, compaiono inaspettate esaltazione entusiastiche del personaggio di Amy, celebrata come espressione di donna esasperata dal maschilismo moderno al punto da dover cercare vie non ordinarie per trovarne una via d’uscita.

Ora, se il personaggio di Amy può certamente offrire degli spunti di riflessione condivisibili espressi dall’autrice attraverso la sua voce, leggendo il libro appare incredibile che esso sia stato dichiarato emblema del femminismo, ignorando non solo l’inammissibilità delle sue azioni, ma anche il fatto che gesti estremi e dettati da un malessere mentale non possono essere confusi con una personalità forte e determinata.

Amy Dunne è un personaggio psicologicamente instabile, in cui lo squilibrio mentale è stato plasmato da un passato senza amore; è definibile, da un punto di vista psicoanalitico, come affetta da un disturbo antisociale di personalità e caratterizzato da alcuni sintomi di disturbo borderline. Il fatto che sia stata elevata a modello da alcune correnti di pensiero estreme, ci dice anche della superficialità e dell’ignoranza che avvolgono la grande questione dei problemi di natura psicologica e mentale, che invece il romanzo illustra perfettamente. Amy ne è l’esempio lampante; ma, oltre a lei, l’intero romanzo è composto da un universo di personaggi dai traumi irrisolti, che si muovono ciecamente nella storia tentando di non arrivare mai ad affrontare se stessi e ogni loro passo sembra condurre ad un vicolo cieco.

Essi sono abbandonati ai propri pensieri e ai propri bisogni irrazionali molto più che alla lucidità a cui fanno riferimento coloro che considerano Amy una fonte di ispirazione; non riconoscere in lei una visione della realtà distorta, costantemente concentrata sulla ricerca di una perfezione alienante e sull’identificazione di colpe in chiunque la circondi, significa non comprendere quanto complessi siano i meccanismi che si muovono nell’uomo e che vanno ben oltre definizioni semplicistiche e slogan d’effetto, spesso poveri di profondità e incapaci di fornirgli uno strumento per guardarsi dentro.

Molto meglio di noi – e migliaia di anni prima che lo studio della psiche umana divenisse scienza – gli antichi greci comprendevano il modo in cui la mente umana potesse operare a livelli imprevedibili, come pure il modo in cui nelle sofferenze del passato si nascondano i nodi e i lacci del presente: ogni personaggio della mitologia tragica classica è chiamato a fare i conti con le colpe degli antenati, che generano nei posteri una sofferenza ciclicamente reiterata ed uguale a se stessa.

Tremila anni più tardi abbiamo imparato ad analizzare la realtà con estrema superficialità, guardando agli individui come a figure bidimensionali su cui tracciare i valori moderni e da rendere manifesti ideologici. Ciò che il romanzo esplora è invece la complessità delle pulsioni umane, e la drammaticità dell’uomo che cerca e ricrea anche la tossicità di molte delle situazioni in cui si trova, pur senza esserne colpevole: in lui i modelli, spesso dolorosi, appresi in passato operano come delle bussole che lo spingono a ricercare non ciò che è sano, ma ciò che è familiare e, in certi casi, ciò che è familiarmente doloroso.

La psicologia ci offre questa consapevolezza come strumento per essere liberi, ma rifiutarsi di guardarsi dentro e alle spalle, e scegliere di vivere la propria esistenza esclusivamente alla luce di slogan semplicistici e poveri di significato nell’intricata rete di sentimenti umani, significa rinunciare a questa libertà e scegliere di condurre una vita eternamente di facciata.