(Susanna Porrino)
Mi è tornato in mente un film uscito relativamente di recente – “Il buco”, regia spagnola di Galder Gaztelu-Urrutia Munitxa – che con toni fortemente pessimistici tenta di rappresentare in modo metaforico l’egoismo e le ingiustizie che sottendono la società moderna. Il film si svolge in un carcere verticale articolato su più di trecento livelli, ognuno ospitante due prigionieri mensilmente riassegnati ad un piano diverso; partendo dal livello più alto, una volta al giorno una piattaforma carica di cibo viene fatta scendere progressivamente di piano in piano, arrivando tipicamente alle celle inferiori senza più nulla per sfamare i prigionieri rimasti.
Lo sguardo amaro con cui il regista guarda all’umanità si riflette nell’egoismo degli uomini che periodicamente e casualmente vengono assegnati ai livelli superiori, e che pur essendo vittime della stessa ingiustizia e dello stesso destino non sono disposti a rinunciare ad alcuna parte della propria razione, a costo di provocare la morte di uomini che senza alcuna colpa si trovano a livelli inferiori. Ciò che il film realizza, molto più di un generico appello alla solidarietà è l’immagine dell’assuefazione al dolore: il dramma in cui i personaggi si muovono, e che li rende incapaci di curarsi di chiunque diverso da sé, è il loro essere costantemente chiusi in un mondo senza stimoli, senza ricordi e senza speranza, dove sentimenti come la gratitudine e la delusione vengono cancellati da una generale angoscia indirizzata solo alla lotta per la sopravvivenza.
Il primo conflitto che vivono gli uomini rinchiusi nella prigione non è quello con la fame, ma quello con l’identificazione di un senso che appare inesistente all’interno della bolla stretta e scomoda di un egoismo imposto. Mentre gli uomini dei piani più bassi muoiono per la mancanza di sostentamento, quelli dei piani alti muoiono per suicidio, uccisi dall’assenza di ragioni per vivere in una solitudine che l’abbondanza di cibo non può compensare.
Nella dimensione claustrofobica del film, l’unico individuo con cui i prigionieri hanno a che fare è il proprio compagno di cella, che nelle dinamiche distorte e soffocanti a cui sono sottoposti, si configura molto più come una inquietante, potenziale presenza nemica che come un fedele supporto: gradualmente ciò che rende l’uomo capace di sentimenti e legami profondi finisce per svanire e lasciare il posto solo a pulsioni istintive e brutali.
In mancanza di una dimensione sociale in cui relazionarsi, nelle celle dei prigionieri diventa realtà quella totale assenza di valori e principi etico-sociali che alcuni filosofi avevano identificato come la più consona all’uomo e alla sua natura: non limitato da alcuno scrupolo morale, ma ugualmente limitato dalla finitezza del mondo esterno, egli scopre però inaspettatamente di non essere in alcun modo più libero, ma semplicemente più vicino a quella componente bestiale che giace sopita in lui e che lo rende schiavo dei propri istinti.
La verità che emerge durante la visione del film è che la dimensione etica e più trascendente dell’uomo non è una scomoda e limitante appendice scolpita in lui da religioni e ideologie, ma lo strumento attraverso cui relazionarsi con i propri simili e sviluppare rapporti e legami in grado di superare le mere esigenze di sopravvivenza. Non è vero che, come scriveva Plauto, “Homo homini lupus”: l’uomo ha in sé la tensione che lo spinge a cercare e a creare legami di affetto e rispetto reciproco, ma tale tensione viene annullata da tutti quei meccanismi (presenti nel film e presenti in modi e gradi diversi anche nella società odierna) che spingono l’uomo alla solitudine e all’individualismo, riconducendolo ad un egoismo originario.
L’indifferenza verso chi ci circonda si costruisce sulla solitudine, e i personaggi del film, come spesso quelli della realtà, sono profondamente e soffocantemente soli. Come gli ospiti dei piani più alti, siamo una società (almeno quella occidentale) a cui non mancano le risorse, ma che soffre la solitudine; la paura di venire feriti, la competizione estenuante, la presenza di una rete di contatti tutta virtuale ci rende spesso indifferenti al pensiero del dolore altrui, specialmente in un’epoca in cui è così straordinariamente aumentata l’esposizione a immagini di crudeltà e violenza.
Recuperare uno sguardo e una sensibilità verso la sofferenza di chi è lontano significa in primo luogo rompere la bolla individualista a cui veniamo continuamente indirizzati; la ricerca e l’attenzione verso chi ci circonda rappresentano uno sforzo a cui il benessere ci ha forse in parte diseducati, ma in cui si nasconde una parte vitale ed insostituibile della natura umana.