(Cristina Terribili)
L’Italia sta offrendo una grande ospitalità, soprattutto a donne e bambini provenienti dall’Ucraina. Il tam tam mediatico e la macchina organizzativa non ha coinvolto solo gli enti istituzionali: sono soprattutto tante famiglie italiane ad essersi rese disponibili all’accoglienza in casa propria dei profughi. Un atto di generosità meritevolissimo, che va meditato e accompagnato.
Che cos’è l’accoglienza consapevole? Cosa tenere in conto di chi si porta appresso una tale esperienza di guerra?
Il fattore tempo è determinante e va detto con chiarezza: non si tratta di ospitare qualcuno per la classica vacanza di qualche giorno o settimana. Qui i tempi si preannunciano lunghi: c’è chi ipotizza almeno un anno di permanenza nel nostro Paese, e quindi nelle nostre case. Non è un problema, ma bisogna preventivarlo per garantire un’accoglienza di successo.
Diciamo innanzitutto che i profughi ucraini, per lo più donne e bambini, hanno lasciato in patria mariti e padri, genitori anziani, beni e quasi tutte le loro cose. Diciamo che comunicare con i familiari e i conoscenti rimasti in Ucraina non è facile e forse sarà sempre più difficile se le ostilità continueranno con tanta intensità. Chi arriva qui da noi porta con sé emozioni difficili da esprimere, chiuse in un silenzio protettivo, in attesa di qualche buona notizia. I profughi portano con sé un dolore tanto profondo, difficile da avvicinare, che può oscurare quella gioia e quella bellezza della solidarietà che oggi rischiano di non cogliere fino in fondo. Ieri un collega preposto all’accoglienza in un centro mi ha detto: “Se guardi negli occhi quella donna cominci a piangere anche tu, per quanta tristezza le leggi dentro”. E anche l’integrazione a scuola presenta delle difficoltà, per superare le quali non serve solo la generosità, ma occorre soprattutto la professionalità di tutti gli attori coinvolti.
In questo tempo di “rifugio” nelle nostre case, ci sarà anche chi vedrà acuirsi il proprio senso di angoscia, non foss’altro per le notizie – se brutte – che potrebbero arrivare dal Paese di origine, facendo rivivere, anche accidentalmente, eventi, emozioni, ricordi, odori, sapori, riconducibili a qualcosa di terribile di cui hanno fatto esperienza nei giorni di guerra.
Credo utile raccontare un fatto emblematico che può aiutare a tenere presente quanti piccoli e grandi aspetti dell’accoglienza influiscano sui comportamenti e sulle reazioni di chi vi partecipa; nel senso che ciò che è normale per noi non è detto che lo sia per il nostro “ospite” che si è lasciato dietro tanto orrore e paura. Mi racconta il collega: “Per la festa della bambina sono state usate le candeline che fanno le scintille, ma – ahimè – quando finiscono il loro effetto lasciano un odore di polvere da sparo. Mi sono accorto che la signora ucraina respirava male, aveva un attacco di panico e quindi l’ho portata fuori dalla stanza, ho aperto la porta e lasciato entrare aria fresca…
Appena mi è sembrato si fosse ripresa, siamo tornati all’interno della sala della feste e proprio in quel momento è scoppiato un palloncino. I piccoli figli della donna si sono immediatamente abbracciati e hanno cominciato ad urlare e lei è scoppiata in un pianto senza fine. Per noi era solo un palloncino, evidentemente non lo era per lei”.
Ci sono cose che sembrano normalissime, e non si pensa quanto possano rompere quel precario equilibrio di cui i profughi sono alla ricerca. Chi accoglie deve disporsi ad accogliere il silenzio, le lacrime, i sorrisi forzati, deve muoversi in punta di piedi in casa propria e non aspettarsi nulla. Chi ospita deve sapere aspettare che ferite invisibili e profonde ricuciano animi devastati, deve essere capace di tenere una mano tesa e attendere che l’altro sia pronto per fare quel passo utile a raggiungere quella mano, perché ognuno ha i propri tempi.