Il famoso “distanziamento sociale” – imposto durante il periodo di diffusione del virus di cui, nel tempo passato, abbiamo più volte scritto, mostrando qualche preoccupazione per ciò che rappresentava (infatti tendevamo a definirlo “distanziamento personale”) e per le tracce che avrebbe potuto lasciare nel nostro modo di rapportarci con gli altri in tempi divenuti normali – ci ha abituati a vivere e a lavorare attraverso la “mediazione” di uno schermo, a trasmettere in streaming incontri e celebrazioni, a fare riunioni su piattaforme digitali senza quasi uscire dal letto, a ritrovarci connessi a distanza con familiari e amici nelle ore più strane della giornata, alla Dad per gli studenti.

Di connessione e tecnologia se ne fece gran uso, e fu certamente utile sotto tanti punti di vista; insegnarono che non era necessario spostarsi da una città all’altra per fare una riunione di lavoro, risparmiando tempo e denaro. E oggi si continua così; tante cose si fanno dal vivo e contemporaneamente da remoto o in streaming, offrendo la possibilità ai lontani o ai troppo impegnati di partecipare.

Viene da dire, come è sempre stato detto in passato, che il giudizio su uno strumento dipende dall’uso che se ne fa. Non possiamo negare che dove ci fu l’uso – e non l’abuso – di queste opportunità, il giudizio è positivo. Oggi, però, dobbiamo capire se noi usiamo la tecnologia comunicativa moderna o se questa usa noi. La governiamo o ci governa? E la domanda non è di poco conto.

E se ci interessa anche l’aspetto relazionale, che ci coinvolge nei nostri ambiti civili o ecclesiali, l’altra domanda è se l’interconnessione non faccia rima con illusione; illusione di essere comunità civile o ecclesiale solo perché connessi. Si sente molto dire che il periodo pandemico ci ha molto cambiati, non siamo più gli stessi, siamo più distanti, più scontrosi, meno pazienti, meno rispettosi degli altri e delle cose, più individualisti e sgomitanti. Non un quadro idilliaco ma dal quale potremo, forse, un giorno, guarire definitivamente?

Ci sarebbe una ricetta; riappropriarci della presenza, del contatto che è il vero linguaggio comunicativo, mettersi seduti ad ascoltare. “Ma io le persone le ascolto, per essere a mia volta ascoltato?”, si chiedeva Gherardo Colombo davanti ai suoi uditori del carcere di Ivrea, martedì pomeriggio, quando li ha incontrati.