Lo so. Credo che solo lo 0,2% dei vacanzieri inflazionati canavesani scelga di andare in vacanza in Lombardia, sconfinando quotidianamente con il Trentino Alto Adige attraverso il Passo del Tonale. Dunque, so bene che giornalisticamente parlando quello che sto dicendo va contro le tradizionali mete canavesane di Loano e Borghetto Santo Spirito. Ma con la Penny-cane abbiamo deciso di andar a vedere dove morivano i nostri ragazzi nella Prima Guerra mondiale.
Diciamo subito che la Penny-cane ha sopportato benissimo seggiovie e cabinovie arrivando oltre i 3mila metri d’altitudine. Faceva caldo anche lassù. Da ignorante totale, ho visto il ghiacciaio della Presella fasciato di uno strato termoisolante: non avevamo mai visto ghiacciai plastificati. Un’agonia perenne dettata dal mercato delle piste da sci e dall’incongruenza di non aver fatto nulla per abbattere il vitello d’oro (con tutto il massimo rispetto per il vitello) del petrolio. Laddove non c’è il telo ci sono ormai due metri di ghiacciaio in meno.
Ci hanno raccontato che man mano che il ghiacciaio si scioglie, di lì escono mitragliatrici, bombe, cannoni interi e tanti resti di ragazzi. A volte solo arti. Una mano mi ha colpito: poteva essere quella di mio figlio. A Temù c’è una lapide con tanti nomi di ragazzi valdostani rimasti sotto una valanga. Hanno tutti i cognomi che finiscono con la “z”. I luoghi di morte spesso riannodano fili altrimenti nascosti.
Ho fatto cinque giorni a Cané col cane. Una trattoria-albergo condotta dalla stessa famiglia da cinquant’anni. La zia, la cugina, il fratello alla cassa. Un’esperienza particolare quando t’accorgi che il dialetto è simile, comprensibile. Mi viene in mente Mario Rigoni Stern che nel 1940 descriveva le baite e gli oggetti che erano qui in Piemonte al confine con la Francia, uguali a quelli dell’Altopiano d’Asiago mentre la lingua era differente… Ciò che però non impediva di credere di essere anche da noi in Piemonte “in baita” con i medesimi oggetti di sopravvivenza alpina.
Gente lombarda delle Alpi che ha barattato la vita dura in montagna per l’accoglienza. Gente che ha rotto il ghiaccio dopo che ha visto che non sei austriaco o francese, che parli un dialetto simile al loro, parte del “grammelot” transpadano di Dario Fo. Gente povera che ha trovato nell’accoglienza un’economia per restare in montagna. Milano è la loro calamita, ma poi, quando possono, vengono ad aiutare la famiglia nell’impresa di resistere oltre i mille500 metri di quota. Sono lì pronti all’attacco come gli alpini “skiatori” del canavesano colonnello Giordana.
Mi ha fatto effetto il vallone sottostante. Sapete, lì c’è una segheria ad acqua, cioè anziché muovere le macine del mulino, muovono un meccanismo leonardiano del tardo ‘400 che modifica il moto circolare della ruota ad acqua in moto alternativo trasferendola ad un segone. Era una enclave veneziana, perché qui segavano il fasciame per le galere della Serenissima. Volendo, funziona ancora oggi in mezzo a dei pini altissimi. La confondo con la Val di Fassa per i violini, ma chi mi accompagna mi redarguisce dicendo che non capisco quasi niente di musica. E poi sono sordo da un orecchio. È comunque un bellissimo posto.
Siamo poi andati l’ultimo giorno di vacanza nella “terra di nessuno”, tra la prima linea austriaca e quella italiana. Tra i crateri dell’artiglieria abbiamo trovato una lapide. Pioveva, e tornavamo dal rudere del forte di Mero, ridotto male dai recuperanti che per vivere andavano dove i matti facevano la guerra, a recuperare il loro infernale metallo. Molti ci lasciarono le penne. La lapide ricorda un ragazzo di Vermiglio che nel 1915 saltò il fosso per venire a combattere con noi italiani. Fu ucciso nella terra di nessuno forse da un suo compaesano Kaiserjager.
L’unico caduto di quel Comune allora austriaco che voleva l’Italia, un irredentista. Mi ha fatto effetto quella lapide, tenuta ancora oggi bene, Mi ha fatto riflettere sulle storie che ci vengono raccontate. Viva l’Italia!