La frontiera della comunicazione si sposta sempre più in là.

Ma dove, fino in là? C’è un limite da non oltrepassare entro il quale la comunicazione riuscirebbe a proteggere dagli assalti delle fake news, dal mordi e fuggi, dei soli titoli che nulla raccontano delle vicende umane, dai “leoni da tastiera”?

Si direbbe che questo limite non ci sia.

Il mondo della comunicazione è quanto mai interpellato, sollecitato e persino sopraffatto dalla velocità con cui la tecnologia impone dei cambiamenti nel modo – e anche nei contenuti – di comunicare, che a sua volta condiziona e modella la gente, il suo pensare, il suo credere, il suo operare.

Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione potenziano la nostra capacità di comunicazione.

Ma allo stesso tempo rischiano di asservirci alla loro logica.

Una sfida per la Chiesa

La Chiesa non è esente dal fare i conti con questa realtà, dall’affrontarla per trovare una strada nel solco della fedeltà al Vangelo e al suo insegnamento.

La Chiesa si sente interpellata dai cambiamenti; sono interpellati clero, religiosi e laici, perché restare indietro – cioè comunicare poco e male, approssimativi nei contenuti e nella forma – vuol dire rimanere tagliati fuori dall’incontro e dal confronto con la società, catturata e opzionata da una comunicazione altamente professionale, guidata da interessi non sempre e non solo di carattere economico. Bisogna a questo punto chiederci se queste motivazioni bastano alla Chiesa per iniziare una riflessione seria e strutturata.

Forse no.

L’atteggiamento che c’è ancora è quello di un’analisi più tecnica che di significato.

Le molte iniziative che vengono proposte anche nell’ambito ecclesiale, pur radicandosi su un sostrato magisteriale, intraprendono molto spesso un filone che tende a misurarsi con gli aspetti più fenomenologici della tematica (dinamiche, limiti, conseguenze, ecc). Raramente si centra la questione sul versante antropologico, che resta il punto primo da indagare e reindagare, perché se non si parte dall’uomo (persona) difficilmente si può decostruire la complessità della comunicazione, prendendo saldamente in mano il timone e orientarla proficuament

Una visione cristiana

L’antropologia cristiana ha molto da dire a riguardo, anche all’uomo oggi.

Il cristiano contemporaneo (laico, sacerdote, religioso) non ha difficoltà maggiori o inferiori rispetto al passato nel gestire la comunicazione: cambiano gli ostacoli, certo, ma sono sempre egualmente impegnativi, perché la comunicazione non si può estrarre dal contesto culturale che la genera, la produce e la fa vibrare. Analizzare la comunicazione sotto il profilo dell’antropologia cristiana significa primariamente ricordare che l’uomo è costituito così dal Dio Trinitario – comunione tra Padre, Figlio e Spirito, aperto alla relazione di significato con l’altro.

L’uomo porta il segno di questa relazione con il “tu”: nel comunicare metto in gioco tutto me stesso, la mia visione del mondo, la mia sensibilità, i miei sentimenti.

La domanda è: perché farlo?

A questo punto chiunque può dare la sua personale risposta, ma dovendo tracciare un elemento comune a tutte, si può dire che forse è necessario per alimentare il proprio essere, la propria autocomprensione, approfondire la conoscenza della realtà orientata al raggiungimento della verità.

Una comunicazione “spersonalizzata” non porta a nulla, è vuota, e questo lo sperimentiamo tutti, prima o poi; ci lascia insoddisfatti.

Comunicare è condividere

Tornando all’origine del significato di “comunicare” c’è quello del “mettere insieme”, del condividere.

Nella comunicazione c’è quindi primariamente la condivisione dove gli interlocutori mettono loro stessi al centro in una relazione dinamica, dove ognuno “sente”’ l’altro, e si “sintonizza” sulle stesse vibrazioni e sensibilità.

Una comunicazione deve essere sempre personale, vissuta, esperienziale, che serva a tutte le persone coinvolte.

Con questa consapevolezza, il messaggio (il contenuto) potrà passare all’altro in tutta la sua ricchezza e sfumature di significato.

Questo vale per un’omelia, una catechesi, per una cronaca, per un programma radiofonico, per un video su YouTube e TikTok.

Questa consapevolezza porta quindi ai risvolti più pratici (e non meno importanti) dell’uso consapevole dei linguaggi e delle tecnologie che veicolano il messaggio.

Comunicazione come relazione

La domanda con cui abbiamo aperto questo articolo è una geniale provocazione che porta a fare una considerazione: può esistere una comunicazione senza l’uomo posto in relazione?

Può esistere una comunicazione disarticolata dall’uomo, per cui la frontiera, il suo controllo si spostano sempre oltre?

Certamente no, per i motivi di cui sopra.

Allora dovremmo forse riflettere su altri aspetti: perché abbiamo smesso di relazionarci e condividere autenticamente con gli altri? Perché abbiamo smesso di raccontare il mondo interiore e quello che ci circonda delegando o rinunciando ad una delle nostre prerogative, cioè quella di occhi critici e sensibili sulla realtà in cui “io” sono parte, di quella realtà che sto raccontando e testimoniando agli altri in un articolo di giornale o in un programma TV?

Perché abbiamo deciso di estraniarci da noi stessi, seguendo il falso mito che il messaggio che vogliamo comunicare agli altri andrà comunque avanti da sé, senza la mia persona?

Carlo Maria Zorzi e Christian Parolo (ufficio diocesano comunicazioni sociali)

Redazione Web