Giovedì scorso, nell’ambito della tre giorni per la legalità promossa dal Comune in occasione della 24ª Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, nel teatrino civico si è tenuta una serata commemorativa dedicata al procuratore Bruno Caccia, animata dagli interventi di alcune associazioni culturali cittadine.
Ospite d’onore Paola Caccia, figlia del magistrato, che ha tracciato un ritratto del padre intimo e personale.
Ha ricordato che durante il periodo in cui si occupava dell’azione eversiva delle Brigate Rosse, che culminò nell’arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini, la sua famiglia era abituata ad avere le forze dell’ordine sul pianerottolo di casa: il procuratore temeva per la sua incolumità e quella dei familiari.
Molte le inchieste da lui avviate: dopo l’eversione di sinistra – Brigate Rosse e Prima Linea – era stata la volta della ‘ndrangheta che, siccome “con lui non ci si poteva parlare” (come disse Domenico Belfiore, ‘ndranghetista che iniziò a parlare in carcere e che fu condannato nel 1992 per l’assassinio di Caccia), aveva decretato la sua fine.
Il 26 giugno 1983, domenica sera, senza scorta, mentre portava a spasso il cane, lo uccisero 14 colpi, sparati senza che i killer scendessero dall’auto su cui si trovavano.
L’inchiesta sulla ‘ndrangheta non lo preoccupava più di tanto, invece fu per lui esiziale.
Paola Caccia ha ricordato come la mamma, con problemi cardiaci, dopo la morte del consorte ha avuto breve vita, e che lei e i suoi fratelli hanno subito un trauma notevole in quanto nessuno si aspettava l’omicidio del padre.
E poi ha parlato della beffa patita con il processo: Belfiore ha avuto l’ergastolo “ma – si è chiesta – possibile che sia stato un solo uomo a decidere l’uccisione di mio padre? Non c’era forse un’associazione che prendeva delle decisioni?”.
In realtà non solo Belfiore ha avuto la massima pena prevista dallo Stato: successivamente la ebbe anche Rocco Schirripa, panettiere, arrestato nel dicembre 2015 a Torrazza, riconosciuto come l’esecutore del delitto e condannato definitivamente dalla Cassazione nel 2020.
Paola Caccia da dieci anni si reca nelle scuole a portare la sua testimonianza e a sensibilizzare i giovani sul problema delle mafie.
La serata è iniziata con l’esecuzione della canzone “Don Raffaè” di Fabrizio de André, con la voce e la chitarra di Salvatore Cacace – chivassese che era autista della Procura e aveva conosciuto il procuratore –, accompagnato dall’assessore Gianluca Vitale.
Varie associazioni locali sono intervenute accanto all’Università della Legalità, ovvero Officina Culturale, Faber Teater, Gli Invaghiti e Istituto musicale “Sinigaglia”.
Bruno Fasano e Angela Tomada, dell’Officina, hanno spiegato cos’è la mafia e come agisce nella società civile, con un duetto recitato con perizia, mentre i ragazzi del “Sinigaglia” si sono esibiti nei brani “Born this way”, “Beautiful” e “Pensa”.
Franca Sarasso
RedazIone Web