Entriamo in punta di piedi in un fatto di cronaca quanto mai attuale. Il giorno di Pasqua, il neonato Enea è stato lasciato all’interno della “culla per la vita” dell’Ospedale Mangiagalli di Milano. Ai tempi si chiamavano “ruote”; la prima comparve in Francia, nell’ospedale dei Canonici di Marsiglia nel 1188. Sarebbe interessante anche per noi, oggi, andare a rivedere la storia delle “ruote”, la loro evoluzione, la loro diffusione anche nel nostro Paese; storia che ci permetterebbe anche di capire meglio come è stata interpretata nei secoli la maternità sia dalle donne che dalla comunità o dalle istituzioni.
Comunque, per tornare ad epoche più vicine, le “culle della vita” sono nate nel 1993 e sono presenti in quasi tutte le regioni italiane per garantire alle madri che non possono prendersi cura del loro bambino, un luogo sicuro in cui lasciarlo e il diritto all’anonimato per se stesse.
Le “culle della vita” ed il parto in anonimato accolgono le donne che, per i motivi più disparati, ma sicuramente sempre angosciosi ed angoscianti, sentono di dover garantire al loro figlio un destino diverso. La legge stabilisce in 10 giorni il tempo per ripensarci e riprendere il bambino con sé; in casi particolari, se il parto è avvenuto in ospedale, il legislatore può sospendere anche fino a due mesi l’avvio del procedimento che attiverà l’adottabilità del bambino.
Una mamma che decide di lasciare il proprio figlio alle cure di una struttura e che sa di perdere qualsiasi diritto nei suoi confronti compie una scelta dolorosissima ma di profondo rispetto per la vita. Se consideriamo il caso di Enea, da quando è stato messo al mondo egli è stato nutrito, gli è stato dato un nome, è stato vestito e curato e in prospettiva c’è chi si occuperà di lui. Non oso immaginare il percorso di questa mamma fino a quando non si spegneranno i riflettori su di lei: come vivrà questi 10 giorni di sospensione, di attesa; quali i pensieri che attraversano la sua mente; se accanto a lei c’è qualcuno in grado di sostenerla, di darle conforto…
In situazioni del genere si scatenano tanti pregiudizi e si immaginano soluzioni talvolta semplicistiche. La prima cosa che viene in mente è che lo abbia fatto per mancanza di denaro, ma le difficoltà economiche sono solo uno dei tanti motivi e spesso non il principale. Si fa ancora fatica a comprendere l’universo di pensieri che si apre davanti ad una maternità, quante e quali reazioni essa può generare tenuto conto del contesto in cui avviene. L’aiuto psicologico, legale, economico, spirituale che viene offerto dalle strutture o associazioni pro-vita è fondamentale, unito all’ascolto profondo ed empatico che sostenga la donna nelle sue scelte, che la rassicuri sul futuro col proprio figlio e rafforzi il tessuto familiare.
Le “culle per la vita” evitano gesti disperati della donna che potrebbero mettere a repentaglio la sua salute o quella del bambino. I servizi giornalistici di questi giorni hanno rilevato la delicatezza e la competenza di chi prende quel corpicino dalla culla per trasferirlo, sostanzialmente, in un altro mondo aprendogli, di fatto, nuovi orizzonti che scoprirà crescendo.
A noi resta il senso di rispetto per quanto accaduto. Ad Enea possiamo augurare di crescere all’interno di un contesto che sappia accoglierlo e amarlo e che sia in grado di comunicargli quanto amore ha ricevuto anche dalla mamma biologica: perché Enea non è stato abbandonato nel senso semplicistico che normalmente affibbiamo a questo termine, ma è stato accompagnato verso un altro futuro possibile, da una mamma verso una famiglia.