Con la scomparsa di Silvio Berlusconi tramonta la seconda Repubblica. Era nata nella primavera del ’94 nel duello televisivo tra il proprietario di Fininvest e il leader della sinistra post-comunista Achille Occhetto: come è sempre avvenuto nella storia repubblicana, la sinistra, da sola, perse; d’altra parte Occhetto aveva snobbato la mano tesa di Martinazzoli, leader dei Popolari.
Berlusconi, che negli anni Settanta e Ottanta sostenne Craxi (che lo ripagò con la famosa legge Mammì, normalizzatrice delle tre reti del Biscione), scese in politica per diverse ragioni: difendere il suo impero televisivo dopo l’eclisse del leader socialista (fuggito ad Hammamet), riempire il vuoto dei partiti dopo Tangentopoli, spostare il Paese a destra su una linea liberal-capitalista, sorretta da una chiara leadership personale, non priva di un forte populismo (un’anteprima del modello Trump, ma con una ferma attenzione agli equilibri istituzionali: adesione al PPE della Merkel, fedeltà alle scelte del Presidente della Repubblica, anche quando erano sfavorevoli).
Il modello libertario di Berlusconi era già stato avviato con il decollo della tv commerciale (un esempio su tutti: Drive in), che mise in crisi la cultura della Rai come “servizio pubblico”; in politica economica fece appello al popolo delle partite Iva, in politica estera ribadì la fedeltà occidentale, ma negli ultimi anni si schierò contro Zelensky in nome dell’amicizia (ricambiata) con Putin.
Ha governato l’Italia per una decina d’anni, ha perso due competizioni elettorali con Prodi (già presidente dell’Iri, esponente del capitalismo pubblico); la sua egemonia politica è finita nel 2011 quando Napolitano lo indusse a dimettersi da Presidente del Consiglio per la burrasca finanziaria scatenata dai mercati contro l’Italia, troppo indebitata. Qui emerse l’altro Berlusconi, istituzionale: non contrastò il governo tecnico di Mario Monti e appoggiò parzialmente i governi Letta e Renzi, mantenendo sempre fermo il controllo di Forza Italia, la sua creatura politica.
Anche con Draghi fu inizialmente favorevole, salvo ritirargli la fiducia d’intesa con la Meloni e Salvini: aveva capito che la rottura tra M5S e Pd apriva un’autostrada elettorale al centro-destra. Le urne, tuttavia, premiarono la Meloni, non Berlusconi sceso sotto il 10%. Il Cavaliere, dopo alcune resistenze, accettò di “coprire” la svolta nella storia repubblicana: una leader della cultura post-fascista alla guida del Governo. Il cambio di passo, dall’appoggio ai socialisti craxiani al governo degli ex missini, è stato grande e questo conferma, secondo alcuni media, che in Berlusconi la dimensione imprenditoriale ha fatto premio su quella politico-partitica. In ogni caso, come ha ricordato il presidente Mattarella, ha “segnato la storia della Repubblica”, nonostante i conflitti con la Magistratura (pubblici e privati).
Ora si pone il problema del futuro di Forza Italia e delle ripercussioni sul Governo, che non può passare dalla formula “destra-centro” al “destra-destra” (Meloni-Salvini); senza Berlusconi manca la presenza nel PPE: sarà in grado Tajani di garantirla o si aprirà la diaspora dei parlamentari verso la Lega e Fratelli d’Italia? Per la Meloni si apre un vuoto politico: per questo la premier preme per lo status-quo. Durerà?
In realtà Forza Italia, per statuto, non è mai stata abituata a scelte democratiche, essendo tutti i poteri assegnati al Fondatore, Berlusconi. Oggi emergono, in un partito valutato al 7-8%, quattro posizioni: l’europeismo filo-governativo del vice-premier Antonio Tajani; la linea vicina alla Lega della capogruppo al Senato Licia Ronzulli; la tendenza pro-Meloni dell’ultima compagna del premier, l’onorevole Marta Fascina, la componente autonomista guidata dal vice-presidente della Camera Giorgio Mulè, molto legato al PPE ma freddo sul governo Meloni.
In questo intreccio di posizioni cerca di inserirsi il Terzo Polo, con due handicap: la guerra continua tra Calenda e Renzi (ora c’è bagarre anche in Italia viva, con l’ex ministra Bonetti e l’on. Marattin contro Renzi per la scelta autonoma della nuova coordinatrice nazionale, la sen. Paita); la posizione liberale in Europa, con Macron, esponente della grande finanza internazionale, mentre il vuoto lasciato da Berlusconi è tra i Popolari, che non possono permettersi l’assenza dell’Italia, paese fondatore dell’Unione Europea.
Comincia per la Terza Repubblica un cammino nuovo, tutto da scrivere, a Roma e a Bruxelles.