Il parco al centro della città di Foshan non è solo il polmone verde della megalopoli: sembra più un vero e proprio santuario della flora. Le essenze sono qualcosa di incredibile: pini che credo conifere piantati nelle acque del lago delle cento lanterne rosse, l’acqua coperta dall’ondeggiare verde delle foglie del loto. Le ninfee sono come da noi, però i petali sono rossi. Raffiche di vento rendono parzialmente passabile il clima tropicale, mentre gli improvvisi rovesci d’acqua tra le foglie delle piante rendono bene l’idea della foresta pluviale.. Il parco è pieno di ponticelli e panchine, tra i sassi finti si nascondono degli altoparlanti. Ma in questo momento tutto tace, fortunatamente. Svolazzano delle farfalle nere giganti che si aggirano tra fiori sgargianti, gli uccelli si fanno solo sentire, difficile riuscire a vederli. Qui c’è una sorta di religione della manutenzione: malgrado il caldo decine di giardinieri coperti all’inverosimile, potano, puliscono, ripiantano, concimano in continuazione. Il parco è enorme e gli addetti vi si spostano con i mezzi elettrici. Ci sono ponti e tempietti nel parco e statue di draghi, tartarughe e serpenti (questi ultimi veri, pero!). I pannelli sono tutti scritti in cinese, ma a chi come me ha poca confidenza con i logogrammi resta la consolazione di leggere il nome delle essenze in latino.
Avevo notato sin dal mio arrivo la torre pagoda della montagna di Hanaj, con quei suoi tetti ricurvi e desideravo ardentemente salirci: ad ogni angolo di ogni piano, dal tetto pende nel vuoto una grande campana di bronzo. Ho preso un ponte pedonale per arrivarci evitando di attraversare mega arterie stradali. Gli ascensori sono perfetti e hanno tutti l’aria condizionata. La gente, ma soprattutto i bambini mi guardano come fossi un alieno per via della barba e dei caratteri somatici occidentali.
Ci spostiamo – con un’ora di metropolitana – al vecchio porto di Guangzhou, quello che fu bombardato e preso dagli Anglo-francesi durante la seconda “guerra dell’oppio” tra il 28 dicembre 1857 e il 1° gennaio 1858 quando gli occidentali, esaurito l’argento per comprare il te cinese, imposero di scambiarlo con l’oppio, intossicando gran parte della popolazione locale. Gli Inglesi avrebbero scoperto di lì a poco che la “loro” India era piena di te. Qui siamo lontani dal mare: quello che vediamo è un porto fluviale antico, diventato zona di passeggio tra i quartieri dalle case basse, in un rivolo di canali e canaletti, con tutti i tipi di negozietti possibili e immaginabili, negli spazi più incredibili. Senza pretese ci avventuriamo in un locale che sembra una casa privata ma con un potente sistema di ventilazione. Mangiamo specialità di mare molto buone.
Ci sarebbero anche dei bachi cotti, ma quelli per ora penso di non mangiarli ancora…. Sono bachi da seta e qui sono considerati molto buoni. Credo sulla parola ai miei ciceroni ma passo oltre … e mangio il tanto altro che c’è. Le loro vongole sembrano caramelle e proprio come le caramelle vanno giù via una l’altra… in continuo. In tre spendiamo poco più di 10 euro. Passiamo al dolce preparato davanti ai tuoi occhi: al fondo della ciotola c’è del succo di zenzero, poi arriva una cameriera con un bricco di latte intero in ebollizione e lo versa nella ciotola. Dopo qualche minuto il latte si solidifica come per magia, una cagliata in diretta. Dopo ancora qualche altro minuto un buonissimo budino allo zenzero è pronto.
Torniamo verso la metropolitana e attraversiamo un intero quartiere di bancarelle che vendono letteralmente di tutto: dal miele alle piante essiccate, passando per le zampe di gallina fritte. Mi lascio tentare e alla fine compro un bel po’ di mandarini cinesi essiccati: delizia tra le delizie!