Ci sono delitti che sono figli del silenzio. Si costruiscono un mattoncino alla volta, dietro borbottii, invidie, rancori… Prendono vita dietro porte chiuse, luci appena spente, nel buio della mente che tutto distorce.

Ci sono delitti che fanno paura perché raccontano di gente normale, che svolge una vita normale, che ha relazioni normali con gli altri. Ma quell’apparenza di normalità nasconde sentimenti che normali non sono.

Il delitto di Rivarolo del 2021, e la relativa richiesta di ergastolo per l’anziano autore uscita una settimana fa, così come altri delitti che hanno polarizzato la nostra attenzione anche in questi giorni, hanno in sé la parola “normalità” e allo stesso tempo la brutalità e la freddezza di crimini efferati.

Quando sembra(va) che tutto fosse “normale”, e che poi quella normalità abbia portato a pensieri (e azioni) che si sono mostrati di distruzione e di morte, ci spaventiamo: la terra trema sotto i nostri piedi perché perdiamo i punti di riferimento, sorgono perplessità sulle persone che conosciamo, mettiamo in dubbio la nostra stessa sanità mentale.

Potrebbe accadere anche a me? È una domanda che ci sfiora. Se quell’esistenza, caratterizzata da lavoro, famiglia, amici, relazioni, permette poi di far emergere pensieri ed emozioni a danno di chi ci è caro, di chi ci è vicino, perché non potrebbe colpire anche me, noi o chi amiamo?

Qual è la linea sottile che delimita una normalità da un’altra? Perché spesso fatichiamo a renderci normali, a porci dei paletti entro i quali camminare sapendo che quei passi ci porteranno verso un sentiero costellato di difficoltà che dovremo superare, ma anche di serenità, di soddisfazione per la consapevolezza di essere persone per bene.

Quando analizziamo un evento delittuoso abbiamo sempre tanti livelli da tenere in considerazione, la complessità è difficilmente riducibile ai minimi termini e diventa riduttivo provare a dare una risposta che risulti esaustiva.

Forse vale la pena, qui, di occuparci di quel silenzio, di quelle parole non dette ad alcuno, di quei pensieri che hanno rimbombato nelle singole teste, che sono montati come uno tsunami che ha poi distrutto tutto. Forse se a quei silenzi e a quei pensieri fosse stata data voce, se ci fosse stata anche una sola opportunità per esprimere a qualcuno quel turbinio di emozioni negative che stava crescendo dentro, forse e solo forse, alcune tragedie che hanno riempito le cronache di questi ultimi tempi si sarebbero potute evitare.

Allora, forse, quella linea sottile che divide una normalità dall’altra è sottolineata dalla qualità delle relazioni sociali. Avere qualcuno a cui poter confidare i propri pensieri e le proprie emozioni, e che questo qualcuno sia al di fuori dello stretto nucleo familiare, dà modo di ripensare a quello che ci sta accadendo. Il confronto e la condivisione alleviano pensieri pesanti, aprono un varco, mettono un freno ad una catena di pensieri che si sono organizzati, che sembrano combaciare perfettamente e di cui non ci rendiamo conto di quanto pericolosi possano essere perché dettati da rabbia, risentimento, rancore, invidia.

Alcuni pensieri non possiamo annullarli. Tutti possiamo avere pensieri “cattivi”: anche questo è normale. Possiamo però osservarli da una giusta distanza, quella del confronto con qualcun altro e possiamo offrirci un’alternativa, possiamo sapere, grazie a quelle parole scambiate sul pianerottolo, su una panchina, facendo due passi, all’interno di una chiesa o nello studio di un professionista o dove ognuno sente di poterli fare, che non si è soli, che si può essere compresi, che c’è una seconda strada, che c’è un’opportunità di vita.