(gabriella franzino – edy guglielmetti) – Il Rosario è un’eredità santa, a cui il popolo cristiano non ha mai cessato di attingere forza e coraggio. (Paolo VI)
Domenica 8 ottobre si è celebrata l’annuale festa della Madonna del Rosario nell’omonima chiesetta del Rosario a Feletto Canavese.
Officiata dal parroco Don Stefano Teisa, la festa è molto sentita dalla popolazione che da sempre, sin da quando la chiesa venne eretta per intercedere presso la Vergine contro la peste che imperversava nei nostri territori attorno al 1630, si rivolge alla Madonna per chiedere aiuto e protezione.
Se, nella sua forma attuale, il Santo Rosario è stato articolato dal fondatore dell’ordine dei Domenicani, San Domenico di Guzmán (1170 – 1221), che vide nella recita dei Misteri di Cristo un’arma efficace contro le eresie, il Beato Bartolo Longo (1841 – 1926) fece della preghiera del Rosario, il fondamento del suo apostolato dedicandosi poi all’istruzione dei contadini e dei fanciulli, fondando l’ordine delle Suore Domenicane figlie del Rosario di Pompei, istituendo un orfanotrofio femminile e fondando l’Istituto dei figli dei carcerati; divenne il promotore del periodico “il Rosario e la Nuova Pompei”, che ancora oggi stampa copie diffuse in tutto il mondo e, sotto la sua spinta, si costruì in Pompei, il nuovo tempio che venne terminato nel 1887. Sua è la “Supplica alla Madonna di Pompei”, pratica devozionale recitata l’8 maggio (giorno in cui ebbe inizio nel 1876 la costruzione della Basilica) e il 7 ottobre (battaglia di Lepanto del 1571).
Curiosa è la storia del quadro della Madonna di Pompei in cui la Vergine in trono con Gesù Bambino in braccio e ai suoi piedi san Domenico e santa Caterina da Siena, porge la corona del rosario alla santa mentre il Bambino la porge a san Domenico.
Scrive Piermario Frasconi sul suo libro “Don Bartolo Longo, 1941” che il quadro della Beata Vergine del Rosario di Pompei fu dipinto da un frate converso domenicano, un certo fra Egidio, nella prima metà del XIX secolo, molto probabilmente su una tela già dipinta ma rovinata. Alla sua morte la famiglia lo prese come ricordo ma, per bisogno, lo rivendette ad un rigattiere.
Nel 1855 il padre domenicano Alberto Radente acquistò il quadro per otto carlini (circa 40 euro attuali) e lo tenne nella sua cella del convento di san Domenico Maggiore in Napoli fino al 7 ottobre 1865 quando i frati domenicani, a causa della soppressione, dovettero abbandonare il convento.
Padre Alberto portò il quadro con sé nel Convento del Rosariello a Portamedina, e lo affidò alla custodia di suor Concetta De Litala, domenicana.
Il 13 novembre 1875 padre Alberto Radente donava al beato Longo il quadro che giunse a Pompei su un carro che abitualmente trasportava letame.
Il quadro subì vari restauri; nel 1965, durante quello realizzato presso il Pontificio Istituto dei padri Benedettini Olivetani di Roma, sotto i colori sovrapposti nei precedenti interventi, furono scoperti i colori originali che svelarono la mano di un valente artista secentesco della scuola di Luca Giordano.
L’ultimo restauro, presso il Laboratorio Dipinti dei Musei Vaticani, è del 2012.
Proprio le letture di questa domenica
Is 5, 1-7; Sal.79; Fil 4, 6-9; Mt 21, 33-43.
sono lo specchio nel quale vedere riflessa la storia personale e comunitaria del nostro rapporto con Dio.
Don Stefano, riflettendo sulla prima lettura, rileva che “Oggi è la nostra Chiesa la vigna che il Signore coltiva con cura, amore e che affida a noi <<vignaioli>> con il compito di continuare la missione da Lui iniziata. Ma noi, popolo che dimentica la carità e vive di egoismi, sa produrre solo acini acerbi, dà al Cristo in croce, che chiede acqua, una spugna intrisa di aceto”.
Nel Salmo Responsoriale il salmista, cosciente della tensione tra fedeltà e infedeltà, tra rifiuto ed accoglienza, supplica il Signore, Dio degli eserciti, a far risplendere ancora il Suo volto per far sì che noi, invocando il suo nome, possiamo ritornare a vivere e sperare in Lui.
Il Vangelo poi ci mostra che, nonostante le difficoltà e le apparenti fragilità, nulla può fermare l’amore di Dio per gli uomini, neppure la morte del suo Figlio, anzi questo sacrificio procura la salvezza per tutti noi.
Aggiunge Don Stefano che “Dobbiamo applicare i criteri del Vangelo a noi stessi: penitenza e umiltà. E se il Signore da noi non ha ottenuto ciò che avrebbe dovuto, la conclusione dovrebbe essere quella della rovina finale, ma Gesù ci ricorda che la pietra scartata è diventata pietra angolare. E chi meglio della Madonna può intercedere affinché tutti, dal pontefice all’ultimo fedele, siano soccorsi dalla misericordia e provvidenza di Dio?”.
Allora il popolo a cui sarà dato il regno di Dio affinché produca frutti potremmo essere noi se avremo un cuore nuovo, se le difficoltà superate saranno uno strumento per misurare la nostra autenticità e solidità della nostra fede.