Il mercato degli smartphone è sempre in continua evoluzione; nuove applicazioni sempre più sofisticate, in grado di aiutare nella gestione del quotidiano con produzione e vendite ormai superiori a quelle dei pc. Eppure c’è chi si sta ribellando ad una vita da “connessi allo smartphone” e riprende in mani i vecchi cellulari, che servivano solo per parlare come ad un comune telefono.
In vent’anni, il mezzo per comunicare è diventato lo smartphone, oggetto ritenuto indispensabile, che sostituisce la maggior parte di ciò che ci si porta appresso, perché ormai con uno smartphone si può fare quasi tutto: pagare, aprire la porta di casa, controllare le telecamere di sicurezza, prendere appunti, fotografare e tantissimo altro. Raramente si esce di casa senza il cellulare e qualora capitasse si viene assaliti da un profondo senso di smarrimento e angoscia.

Qualunque evento è tale se ripreso con lo smartphone, anche ai concerti. Persone di ogni età hanno in mano lo smartphone per registrare e testimoniare di esserci. Non è importante guardare, ascoltare, lasciarsi attraversare dai pensieri o dalle emozioni di uno spettacolo o di un momento della vita; è importante filmarlo, fotografarlo, postarlo per acquisire un significato che deve essere poi validato da un like, da una visualizzazione o da un commento.

Ma, come dicevamo, c’è chi comincia a sentire la necessità di non essere sempre connesso, di allontanarsi dalla schiavitù dei social, dal far dipendere il proprio umore ed il proprio benessere dal numero di like. Dall’esperienza del Covid e dall’alienazione che molti giovani hanno percepito nello stare tutto il giorno connessi allo smartphone, sono nati i “nuovi luddisti”, un movimento di studenti che, riprendendo il nome da Ned Ludd – un operaio inglese che nel XVIII secolo distrusse un telaio meccanizzato per ribellarsi alla meccanizzazione dell’industria tessile -, hanno deciso di usare solo i cellulari di prima generazione ed incontrarsi di persona per condividere attività e tempo libero. Se all’inizio il movimento era appannaggio di un manipolo di giovani di un liceo di Brooklyn, ora il movimento si è ingrandito accogliendo persone in tutto il mondo.

Consapevoli che lo sviluppo della tecnologia ha facilitato ogni genere di attività lavorativa, viene denunciata però la pervasività degli smartphone e quindi dei social, che impongono stili di vita, modi di pensare e orientano l’attenzione verso alcune proposte piuttosto che su altre. I “nuovi luddisti” affermano che tutte le app che pur contribuendo alla gestione del nostro quotidiano, ci tolgono però abilità e competenze. Potersi dunque ritrovare in un contesto in cui lo schermo dello smartphone non è la barriera che divide diversi mondi, le persone ricominciano a fare delle cose insieme, attivano percorsi creativi, ricominciano a parlare con naturalità all’altro, cercano di riprendere il controllo della propria vita.

Non a caso, anche l’Italia, dopo l’esperienza del Covid e dello smart working ha istituito delle regole per il diritto alla disconnessione. Chiunque ha il diritto di non essere sempre e per forza connesso 7 su 7 e 24 su 24.

E anche nel nostro Paese si stanno sperimentando, nelle scuole, o durante alcune attività sportive, o in periodi di vacanza, la possibilità di spegnere lo smartphone per dedicarsi ad altro, ed utilizzarlo come mero mezzo di comunicazione solo per cose importanti. Per qualcuno non è semplice, rappresenta una vera e propria sfida, in ogni caso ognuno di noi può decidere di spegnere il cellulare per alcune ore al giorno… e se si sopravvive allora vuol dire che si può fare.