L’ex premier Conte ha sferrato un attacco senza precedenti al Pd, partito “alleato”, umiliando la segretaria Schlein e mandando all’aria il “campo largo”. Il suo messaggio è chiaro: l’alleanza si può fare alle condizioni dei Pentastellati e il leader spetta al M5S, con buona pace dei media che ancora puntano sul confronto tra Meloni-Schlein. L’occasione dello scontro è il “voto di scambio” denunciato dai magistrati nei confronti di esponenti dem a Bari e Torino, ma le radici della contrapposizione vengono da lontano. A cominciare dal fondatore Beppe Grillo, il Movimento non ha mai accettato la linea dell’alleanza organica di centro-sinistra perché le sue radici sono composite: populiste, progressiste, terzomondiste… Dopo le elezioni politiche del 2018 i pentastellati sono andati al Governo con la destra di Salvini, tollerando una dura politica contro l’immigrazione; nel 2022 hanno contribuito alla caduta dell’Esecutivo Draghi, pur sapendo del forte rischio di vittoria del centro-destra per la dispersione dei partiti del “campo largo”.
La segretaria Schlein ha risposto duramente alle offese (“partito di cacicchi”), ma le sue armi sono spuntate perché sinora la sua linea ha insistito su una svolta radicale, di sinistra, e sull’intesa con il M5S, con rapporti molto difficili con i Centristi, peraltro divisi. Prima dello “scandalo”, l’europarlamentare Mercedes Bresso, già presidente della Regione Piemonte, aveva criticato la segretaria per la sua corsa a sinistra, ricordando la tradizione riformista del Pd. Si ripropone l’irrisolto contrasto tra i voti dei Gazebo, che hanno premiato il movimentismo della Schlein, e quelli degli iscritti che invece avevano favorito la scelta riformista, quella che diede vita nel 2007 alla fusione nel Pd dei Ds, dei Popolari, degli ambientalisti di Rutelli. Oggi i Dem permangono divisi su molti temi, dalle alleanze alla politica estera, dai temi etici alla questione sociale in rapporto al prevalere del capitalismo finanziario su quello industriale (emblematico il caso Torino-Fiat). Probabilmente i Dem, dopo le Europee, avranno l’esigenza di un Congresso di chiarimento politico-programmatico, anche per il ruolo che in democrazia è chiamata a svolgere l’opposizione.
Per quanto riguarda il “voto di scambio” (che purtroppo non riguarda solo il Pd ma ha toccato altre formazioni, da Roma alla Sicilia) va rilevato anzitutto che investe la priorità della politica: servizio al prossimo e al bene comune (secondo una famosa definizione di Paolo VI) o ricerca del potere per il potere? I “codici etici” possono servire, ma è essenziale la gestione quotidiana dei partiti, a tutti i livelli, nazionale e locale. Vogliamo una politica fatta di baruffe quotidiane, oppure un confronto, anche duro, sui grandi temi della società, dalla pace alla giustizia, dalla tutela degli “scarti” al rispetto degli avversari, “competitori”, non nemici da odiare? L’avvento del bipolarismo, su modello americano, non ha migliorato il quadro complessivo delle istituzioni, già deteriorato (“Mani pulite” docet) negli ultimi anni della prima Repubblica. Ma l’opinione pubblica, giustamente, sollecita una generale correzione di rotta, avendo come modello i puntuali comportamenti del Presidente della Repubblica.
In Piemonte, alla vigilia delle regionali del 9 giugno, la vicenda “voto di scambio” e, soprattutto, la divisione nelle liste tra Pd e M5S, rende più problematico il confronto politico. Ma sarebbe un errore ridurre la competizione democratica ai sondaggi Cirio-Pentenero. La Regione ha grandi problemi che meritano una verifica aperta e non propagandistica: dalla sanità (con lo scandalo delle liste di attesa) all’assistenza agli anziani, dall’impressionante calo demografico (nel 2022 abbiamo perso altri 5mila abitanti, nonostante l’immigrazione) al declino industriale. All’iniziativa sindacale per Mirafiori, che rischia l’eclisse, hanno aderito tutti, dalle istituzioni alle forze politiche.
È un simbolo mondiale di Torino e del Piemonte che non può tramontare: le forze politiche, pur divise sul voto, possono percorrere insieme questa battaglia nei confronti di Stellantis e del Governo: l’azienda non può oscurare le radici storiche del gruppo ex Fiat, l’Esecutivo, che ha trovato dodici miliardi di euro per il Ponte sullo Stretto, non può lesinare risorse all’industria dell’auto, pensando soprattutto ai riflessi sull’occupazione.