Queste ultime settimane sono state segnate da eventi familiari drammatici che impongono una riflessione di ampio respiro, nel tentativo di definirne i contorni comuni e, da questi, abbozzare qualche idea su cosa fare, come cambiare quella che sembra una deriva di violenza che non trova limiti e freni.

Il dubbio che ci si pone frequentemente dopo questi tragici eventi riguarda gli elementi di psicopatologia. La gente si chiede se l’autore fosse “normale”, “sano”, se quella famiglia si potesse definire “funzionale”, “una famiglia come tante”.

Da tanti anni, lo studio delle azioni devianti mette in luce come chi commette crimini non sia una persona “malata” ma una persona che non ha saputo esprimere diversamente il proprio disagio, problema o difficoltà. Spesso dietro queste azioni violente ci sono gravi difficoltà nel gestire stati emotivi e frustrazioni, c’è l’incapacità di analizzare i propri bisogni, anche in relazione all’altro che ne viene coinvolto, o travolto. I freni inibitori che dovrebbero agire quando si provano forti emozioni o si vuole raggiungere un obiettivo ad ogni costo, saltano completamente dando spazio a reazioni abnormi, impensabili.

A volte chi commette azioni criminali non ha accettato rifiuti affettivi, non è riuscito ad adattarsi alle regole familiari e sociali, ritiene di aver subito dalla vittima prepotenze, violenze, limitazioni alla libertà personale. Sovente sono persone che non hanno mostrato disagi psichici, non sono stati attenzionati dai servizi sociali, non sono mai stati presi in cura da nessuno perché hanno vissuto lo stato di disagio da soli, senza confrontarsi e vivendo il problema all’interno di un pensiero centrato solo su se stessi; ritenendo infine di dover trovare da soli una soluzione. In questi casi la soluzione è sempre estrema, sempre brutale, sempre lesiva di sé o dell’altro.

Il disagio psicologico o la sua espressione sono anche una richiesta di aiuto, spesso non vista o considerata da chi sta accanto. In recenti fatti di cronaca, al disagio è stata cercata una soluzione attraverso la rete invece che rivolgendosi alle istituzioni, alla famiglia, agli amici.

Il dialogo, che chi mi legge sente che spesso invoco, non va relegato al fatto o all’evento di cronaca che ci colpisce, ma va costruito costantemente, va aperto e rinnovato in ogni occasione, va esteso ai temi che sono cocenti per età o per contesto sociale. Il dialogo non è fatto solo di parole: è anche presenza, è anche l’opportunità che uno ha di raggiungere l’altro o di portarselo dentro come pensiero, come alternativa e quando si ha un’alternativa, una soluzione non violenta è possibile.