La zecca di Montanaro è indissolubilmente legata al castello che la ospitava. Ci si chiederà il perché di una zecca che batteva moneta in quell’angolo di basso Canavese: la risposta è da cercare nella disponibilità degli abati di S. Benigno di Fruttuaria di poterlo fare in quanto quei territori erano un piccolo stato autonomo, un feudo del papa.

L’abbazia fu eretta probabilmente nel 1003 dall’abate San Guglielmo da Volpiano come avveniva da qualche tempo nel resto dell’Occidente cristiano. L’esperienza con le abbazie in Francia, gli permise di giungere a San Benigno, dove si era rifugiata parte della sua famiglia in fuga da Orta. Proprio su questa esperienza scrisse le linee essenziali della concezione della libertà monastica da lui teorizzata, sintetizzate nel documento databile fra il gennaio del 1015 e lo stesso mese del 1016, con il quale egli illustrava la vicenda della fondazione di Fruttuaria e ne chiariva lo statuto giuridico, mettendone in rilievo l’assoluta indipendenza da qualsiasi vescovo, monastero o autorità laica.

Per conferire validità al documento lo corroborò con 324 sottoscrizioni di altrettanti monaci, grandi abati, vescovi e perfino monarchi. Tra questi Roberto II, re di Francia, di cui Guglielmo fu ascoltato consigliere. Del resto la sua riforma portò ricchezza religiosa, culturale ed economica alle abbazie perché seppe coniugare la riforma della disciplina regolare con le esigenze dei proprietari laici ed ecclesiastici di celle e monasteri che avevano così garantito il successo della sua riforma: tornato in Francia, aveva ricevuto prima del 996 la donazione a St-Bénigne della chiesa di Saint-Aubert-sur-Orne da parte di Riccardo I duca di Normandia. Questa forte autonomia dal potere laico e diocesano durò dal 1010 con l’abate Giovanni fino al secolo XV quando le forti ricchezze fecero gola ai potentati locali. Fu l’istituzione della “commenda” a dare il colpo di grazia a queste entità religiose ed economiche, complice anche il deteriorarsi della vita monacale sempre più lontana dall’ortodossia della regola e dalla situazione di forte instabilità politica. La mancanza di difesa militare propria o mercenaria fece scattare il meccanismo della “protezione” sabauda. Nel 1433 Tommaso dei conti di Valperga si recò a Thonon dove risiedeva Amedeo VIII di Savoia per chiedere la protezione ducale. Tra i vari punti si leggeva: “Che il Duca, riconoscendo i Monaci più idonei a pregare che a maneggiare le armi, li prenderebbe sotto la sua particolare protezione con le persone e le castella che loro appartenevano”. Ma con l’avvento dello jus patronato nel 1477 papa Sisto V della Rovere tolse ai monaci il diritto di elezione del proprio abate, costituendo l’Abbazia in Commenda, riservando tale elezione al sommo pontefice.

Il primo abate commendatario fu il nipote del papa, il cardinale Domenico della Rovere dei signori di Vinovo. Le decadute rendite (i mille fiorini d’oro nel 1546 erano scese a seicento ducati d’oro), davano il peso di queste gestioni “esterne”, ottenute spesso per restituzioni di favori politici. Dopo una lunga commendatizia dei Ferrero Fieschi, per tanto tempo vescovi di Ivrea e commendatari di S. Benigno, per recuperare castello e feudo di Crevacuore perduto, lo scambiarono con S. Benigno che cedettero al duca Emanuele Filiberto per riottenere Crevacuore appunto, con il consenso di papa Gregorio XIII.

Ben presto gli abati commendatari furono personaggi secondari e laici della corte ducale che miravano a ricavare più profitto personale possibile dall’abbazia.
La monetazione abbaziale ci fa ripercorrere ancora oggi la storia di un lungo declino. Quello stato nello stato, feudo regalis che tra le prerogative di microstato sovrano, aveva anche il privilegio di battere moneta nella torre del castello, aveva una sua circolazione di monete il cui valore era rappresentato dalle rendite abbaziali stesse e creava altra ricchezza con l’aggio positivo, cioè la differenza positiva tra il valore nominale e il valore reale.

Il cardinale Bonifacio Ferrero e vescovo-conte di Ivrea scrisse a papa Clemente VII per ottenere tale privilegio di cui godeva l’Abbazia che un tempo, “ebbero gli abati dell’Abbazia di San Benigno di Fruttuaria, ma che poi alcuni di essi o per la loro assenza o per incuria o per le vicissitudini delle cose e dei tempi” lasciarono cadere in disuso. Il primo coniatore (zecchiere) fu Gabriele de Tattis di Varese, poi Bonifacio Miroglio di Fontaneto dei signori di Moncestino e un terzo noto fu Rolando Gastaldo.

Gli abati che batterono moneta appartenevano tutti ad una potentissima famiglia biellese e furono il cardinale Bonifacio Ferrero tra il 1524 e il 1543, Sebastiano Ferrero, nipote del precedente e vescovo di Ivrea per un solo periodo dal 1546 al 1547, Ferdinando vescovo di Ivrea, fratello di Sebastiano e l’ultimo fu Giovanni Battista di Savoia Racconigi, tra il 1581 e il 1582.
Proprio in quell’anno il duca Carlo Emanuele I che aveva il jus patronato dell’Abbazia, decretò la chiusura della zecca. Gà con i Ferrero i Savoia decretarono illegali queste monete al di fuori dei territori dell’Abbazia, concedendo il corso legale solo per quelle coniate da Giovanni Battista di Savoia Racconigi.

Questi, nato nel 1549, morì a Saragozza nel 1585, sacerdote, ottenne in beneficio l’oratorio di Santa Maria di Racconigi, abate di San Benigno dal 1581, protonotario apostolico e ambasciatore a Roma nel 1582, rinunciò alla carriera ecclesiastica nel 1582; investito di Tegerone il 12 gennaio 1582 col titolo di marchese, sposò Benedetta Spinola figlia del marchese Alfonso, marchese di Garessio e Patrizio Genovese.

Tre i metalli impiegati per queste monetazioni: oro, argento e di eroso misto (lega contenente rame), considerate oggi molto rare dai collezionisti.