Vogliamo dare seguito al tema “abbordato” la settimana scorsa in questa stessa rubrica ampliando la considerazioni e approfondimenti sul dolore che rimane in chi sopravvive alle tragedie familiari patite in diretta, purtroppo numerose in questo periodo. Che cosa resta con cui fare i conti una volta finito il trambusto delle sirene, delle indagini, della mediaticità?

Quando i colpi di un’arma smettono di risuonare rimane l’odore, la vista di uno scempio e i gesti da compiere per soccorrere, o per fuggire e proteggersi. Poi il vuoto, l’incredulità, il senso di totale incomprensione, mentre la mente si avviluppa su se stessa e ricerca, come in una moviola, di capire in quale punto una giornata si ferma.

Ci sarà poi la chiara percezione di un senso di irrealtà: si alterneranno momenti in cui quello che è accaduto sembrerà lontanissimo, altri in cui la memoria andrà a riportare a galla una parola, un’immagine, un’emozione, una paura. Ci saranno rabbia, sgomento, tristezza, angoscia, a volte “congelate” in quell’istante in cui quelle vite si sono bloccate.

Per chi rimane quel momento sarà eterno: una cicatrice sempre aperta. Saranno tutti sconvolti, rimarranno i dubbi, le risposte mai chiarite, i perché dell’anima… e ognuno, a proprio modo, cercherà di lasciarsi alle spalle l’accaduto, desidererà risvegliarsi da un incubo lacerante.

Non dobbiamo dimenticare che al centro di queste tragedie ci sono spesso bambini e ragazzi messi davanti all’accaduto, ma anche le madri, le mogli… che avranno bisogno del sostegno di tutti e di non essere lasciati soli, di essere aiutati a superare questo baratro che rischierà sempre di annullarli. Per questo la comunità è ponte e traghetto che permette il passaggio affinché ci sia ancora vita terrena dopo un lutto brutale.

La comunità dovrà farsi madre, intorno a questi “suoi figli”: dovrà accompagnarli, ascoltarli, condividere le pene e le difficoltà, risollevare, accudire… Quella comunità, seppur geograficamente lontana, siamo noi!