Oggi si guarda alla Cina con nuova attenzione non solamente per il suo peso politico ed economico, ma anche dal punto di vista cristiano. Sull’aereo, di ritorno da Singapore, papa Francesco ha detto: “Credo che la Cina sia una promessa e una speranza per la Chiesa”. Chi ha seminato la fede in quella parte di mondo? Ce lo chiediamo proprio prima di chiudere il mese di ottobre, da sempre dedicato alle missioni.

Martino Chiolino nacque nel 1877 a Tissone di Fondo Valchiusella e a quindici anni entrò nel seminario diocesano di Ivrea. Qui si concretizzò il suo desiderio di andare missionario. E riuscì ad entrare nel Pontificio Istituto Missioni Estere di Milano (PIME) e, completata la preparazione, partì per la Cina. Nel suo diario annotava le prime impressioni: “Questo paese, non è certo delizioso come il mio Canavese… Le alte colline, o montagne che siano, le quali lo solcano in ogni direzione, sono aride, brulle, sassose; non vi sgorga una fonte, non vi scorre un ruscello”. Sono gli ultimi anni del Celeste impero, quelli rievocati dai film “Lanterne rosse”, “L’ultimo imperatore”, “La locanda della sesta felicità”. Il paese, governato dai mandarini, era lacerato da lotte intestine e straziato dalla rivolta dei Boxers. Padre Martino visse in prima persona i trentatrè anni dell’anarchia militare che precedette l’avvento di Mao Tse-Tung. Nonostante il clima malsano, la scarsità di cibo e le pessime condizioni di vita, il giovane missionario non si risparmiava. Il figlio del Chiusella diventò presto un personaggio chiave nel lembo di terra compreso tra il fiume Giallo e il fiume Azzurro. A un confratello che gli faceva presente che lavorava troppo e non pensava mai a se stesso, rispondeva placido: “Non preoccuparti; al mio paese siamo tutti contadini e minatori e siamo abituati a lavorar sodo. Il buon Dio ci dona una salute di ferro”. Nel 1921, il Papa lo nominò vescovo della diocesi di Weihui (oggi Anyang), nel Honan Settentrionale. Il giovane vescovo si dedicò con coraggio alla sua missione: sviluppò il seminario, costruì scuole, aprì nuovi centri missionari, consacrando numerosi sacerdoti, e fondò due congregazioni di suore cinesi. Nei rari rientri in Italia, il vescovo Martino non mancava di ritornare nella Valchiusella per visitare i familiari. Lo si poteva allora incontrare in maniche di camicia, intento a falciare il fieno o a pascolare le mucche. Fatiche e sofferenze minarono la sua salute. Il buio cognitivo scese sul tenace missionario, che rientrò in Italia. Concluse la sua giornata terrena nella casa di cura del PIME a Monza il 19 aprile 1948.

Michele Arduino nacque a Foglizzo nel 1909, a tredici anni entrò nell’istituto “Cardinal Cagliero” di Ivrea, dove maturò la sua vocazione missionaria. Due anni dopo era già a Macao, allora colonia portoghese e oggi regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese, per le prime tappe della formazione: noviziato, studi filosofici, tirocinio. Rientrò in Italia per gli studi teologici, che iniziò a Torino Crocetta e concluse all’Università Gregoriana di Roma. Dopo l’ordinazione, nel 1933 ritornò in Cina. A Hong Kong insegnò teologia e fu incaricato dei giovani aspiranti salesiani. Nel 1940 fu direttore del collegio di Shanghai, dove rimase fino al 1948, quando la Santa Sede lo elesse vescovo di Shiuchow nel Kwantung (Cina meridionale). Nel 1949 viene proclamata la Repubblica popolare cinese. Il Kwantung fu occupato dalle truppe comuniste e il vescovo prima costretto al domicilio coatto, fu poi processato ed espulso. Scortato da due poliziotti, percorse per l’ultima volta le vie della città e, mentre camminava, tracciò con la mano una furtiva benedizione ai cristiani disseminati lungo il percorso. Rientrato in Italia, non rimane inoperoso. Nel 1953 gli fu affidata la parrocchia di Maria Ausilia-trice a Torino. “Dimesso esteriormente come un semplice sacerdote – scrissero di lui – ma attivo e dinamico, organizzatore geniale, gioviale, caritatevole, come si poteva desiderare da un ottimo parroco salesiano, sempre ottimista, incoraggiante e aperto a tutti i buoni suggerimenti, inesauribile nelle iniziative per il bene delle anime, verso cui sapeva, con visione moderna e pronta, convogliare tutti gli sforzi e coordinare tutti i piani […]. Soprattutto ha fatto risplendere la virtù più specifica del pastore di anime, la carità, che lo ha fatto tutto a tutti, grandi e piccini, giovani e vecchi, poveri e più poveri, buoni e… meno buoni”.

Una delle sue priorità pastorali fu l’accoglienza degli immigrati, che in quegli anni affluivano a Torino. Al Concilio ecumenico Vaticano II prese parte come vescovo di Shiuchow, ma subito fu nominato vescovo della diocesi di Gerace-Locri, in Calabria. Di nuovo missionario, si donò generosamente al suo popolo, fino a che una grave malattia lo condusse alla morte nel 1972.

Secondino Petronio Lacchio nacque a Roppolo nel 1901. La predicazione di un frate lo attrasse alla vita francescana. Maturò la sua vocazione nel seminario serafico presso la chiesa di San Bernardino a Torino, compì il noviziato nel convento di Belmonte e proseguì la sua formazione tra Casale Monferrato, Torino e Roma. Ordinato sacerdote, nel 1928 partì per la Cina come missionario. Il Vicariato apostolico di Changsha, nel Hunan meridionale, era affidato ai francescani piemontesi. Dopo le prime esperienze, gli venne affidato il distretto di Liuyang, in gran parte montuoso e infestato dai briganti. Erano gli anni dell’avanzata comunista e Mao stesso era nativo di Shaoshan nella provincia di Hunan. Inoltre era in pieno corso la guerra cino-giapponese. Padre Petronio si prodigava nella sua missione: si recava a piedi o in bicicletta nei villaggi dove c’erano cristiani, visitava gli ammalati, aiutava i poveri e i profughi, formava buoni catechisti e affrontava con coraggio le situazioni più difficili.

Nel 1940 fu eletto vicario apostolico di Changsha. Poteva contare su una quindicina di sacerdoti, due dei quali cinesi, altrettante suore e una sessantina di catechisti.
La missione contava 24 scuole, un ospedale, un orfanotrofio femminile e un asilo infantile. In un anno ricevettero il battesimo circa mille adulti. La popolazione locale stimava i missionari. Le guerre del tempo ebbero pesanti conseguenze. I missionari furono costretti al domicilio coatto senza mai di fatto abbandonare la cura delle piccole comunità cristiane. Dopo la resa del Giappone, monsignor Lacchio ritornò a Changsha e quando Pio XII elevò Changsha ad arcidiocesi (1946) diventò arcivescovo e metropolita della provincia dell’Hunan. Preoccupato di aumentare gli operai del vangelo e di sviluppare le opere della Chiesa, ottenne nuovi missionari francescani dal Piemonte e due gruppi di suore, dell’Immacolata di Ivrea e Angeline di Torino. Fondò una congregazione di suore cinesi e progettò la costruzione del seminario minore. Poi la bufera; i vincitori della guerra accusarono i missionari di essere complici e servi dell’imperialismo americano; vennero arrestati ed espulsi e le opere della Chiesa cattolica espropriate. Monsignor Lacchio fu sommariamente processato, messo in prigione e sottoposto a numerosi interrogatori. “Dopo undici mesi di prigionia – scrisse – fui dichiarato colpevole di omicidio, spionaggio, attività reazionaria, opposizione al patriottico movimento dell’autonomia, complotto contro lo stato…”. Espulso dalla Cina andò a curarsi a Hong Kong. Dopo essersi ristabilito il Nunzio gli propose di prendersi cura dei cinesi rifugiati a Formosa.
Dopo altri vent’anni di fatiche rientrò in Italia, accolto nell’infermeria francescana di Torino, dove morì nel febbraio 1976.