Foto di Giulia Badan

 

Ho sempre ammirato la sottile arte di alcuni musicisti nel rendere pop anche temi delicati e riflessivi. Fa quasi sorridere vedere masse informi ballare al ritmo di “Vieni a ballare in Puglia” nei concerti di Caparezza da Molfetta, una cruda canzone di denuncia. Battiato pure è stato un maestro: da “Voglio vederti danzare” a “Centro di gravità permanente” passando per “E ti vengo a cercare”, ha reso popolare il trascendente, sdoganandolo con disarmante leggerezza.

Caparezza nei suoi concept album ha indagato sempre tematiche antropologiche non indifferenti. L’ultimo in particolare, “Exuvia” del 2021 è il percorso di un uomo che cambia vita, la metafora è la vita di un invertebrato, che lascia indietro la pelle vecchia, l’exuvia appunto. È un cammino, un percorso, un’evoluzione scandita dal tempo. Due brani sono particolarmente significativi: “Zeit!” e “La Certa”.

Dal tempo che non ci basta, quello che vorremmo in più e quello che non finisce mai, la sua relatività ci è famigliare e Caparezza la esplora sul ritmo di un ticchettio incessante. A tu per tu con il tempo, “Zeit” in tedesco, la canzone è una doccia gelata all’ignavia e al cieco progressismo. “Non mi tieni il passo / Ritorni indietro come Sisifo, non tieni il masso / Correvi a perdifiato, adesso perdi fiato, che disastro”. Qui c’è tutta la disillusione nel vedere infranti i sogni con cui da piccoli si cavalcava il tempo. Non è un nemico, ed umanizzandolo Caparezza si accorge che anche lui invecchia, o meglio invecchia la percezione che si ha di lui.

Al tema del secondo brano ci si arriva facilmente: qual è l’unica cosa certa della vita? La morte, ovvio. Geniale fare pop sulla morte. Personificata però, diventa inno alla vita, a non sprecare il tempo. Dice all’uomo “Mi vedi come la cattiva, la tenebra, la maldita, la Dea che fa la bandita / Ma voglio solo schiodarti dalla panchina / Voglio vederti giocare la tua partita” ed ancora “Ringraziami /Che se fossi svanita come una dedica incisa nella battigia / Avresti l’anima spenta, l’anima grigia / Come la cenere di una cicca nella lattina”.

È una canzone triste, un album deprimente? No. È piuttosto cosciente, e poco trascendente. Ma è stimolante perché ci riporta con i piedi per terra. È un discorso in cui il credo arriva dopo: l’illusione di essere eterni ci avvelena la quotidianità e ci rende ciechi procrastinatori. Sta poi a noi scegliere di vivere per paura di una fine o per anelito ad un fine. La prima però è sterile ed angosciosa, il secondo glorioso ed appagante, ma al contempo tortuoso e faticoso. Rende però nobilmente motivato il tempo che abbiamo a disposizione.