Ci sono anche Camillo e Adriano Olivetti tra i protagonisti dell’ultimo lavoro di Gianni Oliva (I grandi industriali del Piemonte. I pionieri, Capricorno editore, Torino, 2024) dedicato a quei personaggi che ebbero l’ingegno ed il coraggio necessari a far decollare l’industria piemontese di fine Ottocento ed inizio Novecento. Accanto agli Olivetti scorrono e prendono vita nomi noti e meno noti: da Giovanni Agnelli a Vincenzo Lancia, da Napoleone Leumann a Luigi Lavazza, dagli industriali tessili del biellese agli imprenditori del cinema passando per la famiglia Martiny e i Borsa-lino. Alle vicende personali e industriali di Camillo e, in misura più marginale di Adriano Olivetti, la cui attività già si colloca al di fuori dell’arco temporale trattato dall’autore, viene dedicato l’ultimo capitolo del volume.
L’esperienza dell’Olivetti, infatti, racchiude e potenzia tutti i temi trattati nel lavoro di Oliva: l’ingegno dell’uomo che sa cercare e trovare nuove idee, che sa realizzarle in attività industriali fiorenti, che è attento alla qualità della vita di quanti in quelle aziende lavorano coinvolgendo in questo processo il meglio della cultura del tempo. Ma questo capitolo finisce anche per essere un monito ed un atto di accusa per quanti non hanno saputo cogliere le opportunità che questa esperienza poteva dare finendo per scegliere la strada del facile profitto e vanificando l’opera di quei pionieri che avevano creduto fino in fondo in questa idea.
Lo storico piemontese, ex dirigente scolastico e già assessore della provincia di Torino e della regione Pie-monte, dopo aver pubblicato volumi che hanno raccontato e analizzato alcuni temi caldi del Novecento del nostro Paese (solo per citarne alcuni, “Foibe” dedicato alle vicende degli esuli istriani, “Anni di piombo e di tritolo” dedicato alle vicende del terrorismo in Italia da Piazza Fontana alla strage di Bologna, “La bella morte” che tratta degli uomini e delle donne che scelsero la Repubblica sociale italiana) ha scelto, quindi, una dimensione storica nostra, locale, per molti aspetti, perché annovera una carrellata di personaggi, di mestieri, di esistenze che in Piemonte hanno vissuto e operato.
Ciò che li accomuna è la genialità, perché la creatività non è solo delle figure eccellenti, famose nei secoli, ma è qui tra di noi e molte volte non la vediamo. Personalità che hanno saputo cogliere i segni dei tempi, come si diceva una volta, che hanno creduto in un’idea e hanno saputo metterla in piedi nella realtà. Imprenditori altruisti nei fatti se non esplicitamente nelle intenzioni perché il loro fare molto e fare bene si è tradotto in benessere per gli altri, in lavoro, in emancipazione dalla povertà materiale e culturale, in uscita dall’isolamento di campagne ormai stremate ed inadatte a garantire un futuro.
In questo senso l’esperienza di Napoleone Leumann e del villaggio che porta il suo nome a Collegno è emblematica. Nato per rispondere alle esigenze delle centinaia di operai che con le loro famiglie cercavano fortuna nell’area che circonda Collegno e che allora era priva di servizi, difficile da raggiungere, sostanzialmente isolata, diviene un piccolo gioiello urbanistico, genialmente concepito per rispondere, con semplicità ed efficienza, ai bisogni di una famiglia.
I Leumann avevano già evidenziato quella che potremmo chiamare una sensibilità sociale; già il padre di Napoleone, Isacco, manifestava un modo di pensare all’impresa e al lavoro diverso dal comune, denso di umanità. Gente del loro tempo, quello in cui la linea dettata dalla Rerum Novarum di Leone XIII che oggi a noi può apparire paternalistica ma che, comunque, è una pietra miliare della dottrina sociale della Chiesa e che, pur con i propri limiti, ha quel calore umano che il pensiero liberale classico esclude.
I Leumann, quindi, che operano anche per ridurre i rischi di proteste e di rivolte operaie finalizzate alla richiesta di condizioni di vita migliori, comprendono che, come scrive Oliva “una casa propria, un orticello da coltivare, un asilo e una scuola per i figli, un’assistenza medica di base” sono esigenze legittime di dignità umana ed è meglio anticipare che rincorrere uno sciopero. Il villaggio Leumann, inoltre, rappresenta un esempio di collaborazione con figure prestigiose del panorama culturale del tempo: la sua progettazione viene affidata a Pietro Fenoglio, ingegnere e architetto, che saprà mirabilmente unire funzionalità ed estetica.
Il cuore del villaggio è la Chiesa, bella, funzionale ed è un monito, poiché si chiede al lavoratore di volgere gli occhi a Dio rimanendo fedele ai valori della modestia, dell’obbedienza, della famiglia e della tradizione, evitando, anche con i simboli e le prassi della vita quotidiana, una pericolosa deriva socialista. Accennavo, all’inizio, alle particolari circostanze che consentono un successo imprenditoriale; non basta la creatività, ci vuole anche quella sorte benevola, quelle situazioni favorevoli, quella fortuna che, accanto alla virtù, come ci insegnava Machiavelli, sono il segreto del successo. Si delineano a questo punto figure come i fratelli Ceirano o Marcello Alessio che, “ricchi di manualità e di ingegno” come scrive Oliva, non hanno però alle spalle i capitali e l’imprenditorialità necessari per fare il grande salto e passare da una dimensione artigianale a quella industriale vera e propria.
C’è un fantastico capitolo sulla nascita dell’industria del cinema a Torino che ci racconta come nella città ci sia stata la prima proiezione cinematografica in un locale aperto al pubblico appena un anno dopo lo storico evento di Parigi portato a compimento dai fratelli Lumière nel 1895. Il capitolo scorre rapido come un romanzo d’avventura e ci porta dritti al 1914, l’anno di Cabiria, il primo lungometraggio italiano proiettato in contemporanea a Torino e a Milano, facendoci comprendere perché il Museo del Cinema non poteva che essere collocato a Torino nella suggestiva scenografia della Mole Antonelliana. Con Cabiria come non pensare a Gabriele D’Annunzio e alle sue velleità di sceneggiatore: c’è anche questo nel libro di Oliva perché se si parte dal Piemonte non è per chiudersi in un provincialismo asfittico ma, anzi, per capire che eravamo inseriti in un contesto ricco, difficile ma promettente, di respiro europeo.