Giovanni Martino Arnodo, sacerdote originario di Succinto, una borgata dell’alta Valchiusella, fu prevosto di Rueglio dal 1794 al 1809, ossia in un ciclo storico molto travagliato. Grazie alle sue brevi cronache, fatte sotto forma di appunti sui registri parrocchiali, si è potuto ricostruire un periodo pieno di tribolazioni per il paese che, ancora oggi, è il borgo più grande e popolato della Valchiusella.

L’annessione del Pie-monte alla Francia, pagina di cui i libri scolastici di storia si sono sempre occupati poco o niente, fu per Rueglio un capitolo assai straziante del suo passato e questo fu reso ancora più penoso dal fatto che mentre fin da subito il ceto più umile della popolazione fece fronte comune contro l’invasore, considerato appunto come tale, la borghesia invece fraternizzò con esso, ritenendolo un liberatore a motivo del proprio tornaconto personale dato che dai francesi essi speravano di ottenere posti di prestigio e potere in cambio di questa loro totale sottomissione.

Alcuni borghesi ruegliesi si calarono così tanto in questo loro ruolo, da divenire veri e propri collaborazionisti, macchiandosi di infamità come la delazione e il tradimento della propria gente. Questa accesa contrapposizione esacerbò a tal punto gli animi, già scossi da continue tensioni riguardanti questioni interne come ad esempio i confini dei terreni, interessi patrimoniali, e molti contrasti amorosi, che portò in paese una vera e propria guerriglia, narrata brevemente e in perfetto latino dal prevosto Arnodo.

Grazie al presule ci è noto che il più accanito e scellerato dei collaborazionisti fu un certo Giuseppe Pezzana, una specie di Vidkun Quisling ante litteram.

Pezzana si spinse talmente oltre nella sua disonorevole condotta da creare un vero e proprio controsenso nell’epilogo: fu infatti arrestato, processato e condannato a morte dagli stessi a cui si era asservito, ossia dai francesi.

Cosi suonano, tradotte dal latino in italiano, le parole uscite dalla penna di don Arnodo: “Il 17 maggio 1806 all’età di anni trentacinque finisce sotto la ghigliottina nella città di Ivrea Giuseppe Pezzana, figlio degenere del notaio Carlo. Dotato di ingegno e profondamente acculturato, malamente usò i suoi doni”.

Il prevosto continua facendo cenno al servizio militare del protagonista del suo scritto, svolto nell’esercito sardo senza alcun titolo di merito e descrive minuziosamente il suo comportamento dissoluto e il suo sbandamento morale (vitiis vacando) che lo portò anche a dissipare le cospicue sostanze paterne.

Si evince che Pezzana nel propugnare come opportuna l’idea dell’annessione del Piemonte alla Francia non era certo interessato all’idea repubblicana giacobina, ma al suo personale tornaconto.
Nel definire empia e scandalosa la condotta di Pezzana, don Arnodo prosegue: “Per meglio perseguire il suo proposito di procacciare fama e denaro per se stesso, egli ottenne con la violenza e in maniera ignobile (per vim nefasque) la carica di esattore delle imposte che esercitò per due anni in modo così ostentatamente disonesto da rendersi odioso a tutta la popolazione. Nel contempo fece assassinare tre dei suoi più accaniti oppositori”.

Il prevosto non ci dice il motivo preciso per il quale, ad un certo punto, la fortuna voltò le spalle a Pezzana, ma ci racconta che dopo l’arresto e un periodo di un anno e cinque mesi di carcere, fu eseguita la sua condanna a morte.

Rueglio fu presidiata in maniera particolarmente severa e per lungo tempo dai soldati napoleonici, proprio a causa dell’insofferenza generale verso le truppe occupanti. Il prevosto Ar-nodo non ne fa cenno, ma la tradizione tramandata oralmente vuole che le donne ruegliesi, oltre a essere divenute famose per aver più volte malmenato i soldati d’oltralpe a suon di ramazzate, confezionassero le classiche calzature contadine di stoffa, denominate in dialetto “Scofoon” con le divise dei militari nemici che venivano trucidati dai paesani o da loro stesse, durante le numerose imboscate notturne che si verificavano in paese. Se questi racconti non sono stati gonfiati a dismisura, rendono ancora più fosco il quadro già così pesantemente sanguinoso e cupo disegnato del parroco.
Ma ritorniamo agli appunti di don Arnodo che hanno un più importante valore storico.

Il 17 novembre 1801, nei pressi di Vistrorio, i soldati francesi uccisero tre ruegliesi che avrebbero invece dovuto condurre presso le carceri eporediesi. Si trattava di Martino Vercellano Maghi di anni ventitre, di Giovanni Battista Munchiando di anni venticinque e di Giacomo Dezotti di anni quaranta.

Poco tempo dopo, l’8 gennaio 1802 venne ucciso barbaramente (inhumaniter interfectus) Giuseppe Munchiando di anni ventisei. Quest’ultimo fu assassinato da alcuni soldati di passaggio in paese. Nello stesso anno Domenico Gianonatto Ciar-tan di anni trentadue, risulta catturato nei pressi di Sale Castelnuovo e trucidato dalle milizie di Bonaparte.

Con espressioni di profondo sdegno per essere stato testimone oculare del fatto, don Arnodo, il 1 ottobre 1802, riferisce che Giuseppe Bianchetti Bordiot, di anni trentacinque, fu catturato e imprigionato a forza in canonica dove fu ucciso senza pietà adducendo come falso pretesto un suo tentativo di fuga.

Il prevosto riporta amareggiato anche fatti di sangue precedenti questo periodo, come l’omicidio di Antonio Rapegno Gallino, di anni venti, avvenuto con una sciabolata infertagli durante una rissa il 3 aprile 1795. Non ci sono riferimenti né all’omicida, né al motivo del diverbio.

A distanza di una settimana venne registrato un ulteriore tragico evento. Il trentenne Martino Defilippi Roman cadde per le vie del paese e venne ritrovato in una pozza di sangue; il colpo mortale gli era stato inferto da una catapulta.

Il terzo omicidio dell’anno si consumò nella notte tra il 14 e il 15 giugno e la vittima questa volta fu il diciottenne Pietro Vercellano Maghi, colpito da una imprecisata arma da fuoco. Trascorsero solamente tre anni, era il 9 aprile del 1798 e in paese era stanziato un distaccamento dell’esercito francese, quando Antonio Scala Coa di anni ventitrè, venne trafitto da un proiettile. Negli stessi periodi anche in altri paesi della valle si registrarono morti cruente. A Vico, per esempio, non furono pochi i giovani colpiti a morte in pieno giorno o all’imbrunire e anche qui i motivi erano i più disparati: dalle risse alla politica.

L’esercito napoleonico fu presenza assai ingombrante anche in Valchiusella: nei primi anni dell’ottocento costrinse le Fucine Triverio e Gattino di Meugliano a produrre, a suo unico consumo, proiettili per armi da fuoco di ogni dimensione.

Purtroppo il resoconto che ci ha permesso questa ricostruzione storica e che resta uno dei più importanti documenti di tale periodo nella piccola vallata prealpina solcata da torrente Chiusella e all’epoca ancora divisa in due vallate denominate di Brosso e di Chy, di cui Rueglio faceva parte, termina nel 1809 con la morte di don Arnodo.

Il suo successore don Michele Quilico da Pavone non ci ha lasciato traccia alcuna di cosa sia successo negli anni susseguenti.

Ad ogni modo le scorribande francesi portarono non poche nefande conseguenze anche in epoche precedenti. Nel 1704 quando le truppe di Vendôme assediarono Ivrea, la soldataglia, con la scusa di reperire foraggio per i cavalli, saccheggiò e mise a ferro e fuoco alcune località alle porte della Valchiusella come Fiorano e Lessolo. Anche qui i registri parrocchiali elencano una serie di efferati omicidi tra cui quello del fioranese Giovanni Domenico Capra di anni trentacinque, del lessolese Domenico Casetto di anni sessanta e di Giovanni Moro di anni quarantacinque che stava tentando di fuggire verso i boschi di Alice Superiore.

Per ritornare a Rueglio, probabilmente questi ed altri episodi, occorsi in epoche antecedenti e successive, hanno forgiato il carattere dei suoi abitanti che sono noti per non tollerare soprusi e per essere piuttosto bellicosi in determinate circostanze; non per niente circola il detto Ruvej, pistole e cotej….

Le sciagure dell’epoca napoleonica hanno comunque fatto versare molte lacrime nel paese dove fino a non molti decenni fa si usava fare il “wajo”che trova il corrispettivo nel verbo tedesco weinen, ossia piangere animatamente. Il wajo era un grido di dolore, uno straziante pianto affidato alle donne in occasione dei funerali il quale seguiva un rito preciso ed era innanzitutto una crudele requisitoria di tutte le pecche e le mancanze commesse in vita dal defunto.

Oggi il wajo è passato di moda e Rueglio ha fatto pace con la Francia, tanto che nel novecento ha avuto parecchi figli emigrati oltre alpe, inoltre da anni ha una sindaca di origini italo francesi Gabriella Maria Laf-faille e infine è gemellato col villaggio di Saint Rambert en Bugey nel dipartimento dell’Ain della regione dell’Alvernia Rodano Alpi.

In più una curiosità: il tipico vestito femminile ruegliese, di fattura casalinga, un tempo usato abitualmente e oggi divenuto costume tipico si chiama frok, con un evidente etimo dal francese froc, ossia braga. Il frok ruegliese consiste in una gonna con corsetto scollato, allacciato sul petto e ricamato con lane variopinte e lane o cotoni neri con pieghe che partono strette dalla cinta per poi ampliarsi a cannoncino verso l’orlo. Questa particolare fattura sottolineerebbe la sinuosa andatura femminile. Sulla gonna si porta il “faudal magnin”, ossia un grembiule in tela ruvida di colore blu a righine bianche. Infine sulle spalle un ampio fazzoletto bianco che copre anche la testa.

Tra gli accessori c’era il “lascul”, ossia un nastro tessuto a mano in vivaci tinte e la “skulman”, ovvero una spilla a fattura di grande asola, ricamata in perline, nella quale si infilava la rocca.

Sotto c’erano i “kausugn” o “virulik” gambaletti neri a bordi rossi e gli zoccoli o gli stivaletti. In inverno sopra al frok si indossava il “karakò”, una giacchetta con mantellina in panno rosso.
Alla festa, sotto al frok al posto della camicia si indossava “brasjera” in seta, raso o broccato. E molti altri erano gli accessori, come la cuffia a ventaglio detta “garibolda”, la “kruwata de spiset” scendente sulla cintola e infine il “grupit”, un monile formato da due pallottole appese a delle trine pendenti sul petto.

Corsi e ricorsi storici, usanze e tradizioni di un paese che conserva intatto un fascino e una vitalità fuori dal comune.