(testo di Renato Scotti – immagini di Giulia Ladetto, Mirella Nigra, Gabriele Bisco, Martina Acotto e Marta Forloni) – Hanno avuto luogo anche quest’anno, nelle comunità di Mazzè, Tonengo e Villareggia, guidate da don Alberto Carlevato, sempre validamente coadiuvato dal Diacono Permanente Paolo Brun, i festeggiamenti in onore di sant’Antonio abate, padre del monachesimo cristiano, uno dei santi più celebrati nei paesi che conservano una viva tradizione rurale.

A Mazzè (e nella vicina frazione Barengo) e a Tonengo – presente una rappresentanza della Coldiretti locale – il santo abate è stato onorato domenica 19 gennaio nelle Sante Messe di orario, seguite dalla tradizionale benedizione delle auto, delle macchine agricole e degli animali.

I fedeli partecipanti sono poi stati deliziati con un pranzo “pantagruelico”, musica e balli alla festa organizzata dalla Proloco di Mazzè – Tonengo presso il Maxi Ristorante Mago di Caluso.

A Villareggia i festeggiamenti hanno avuto inizio venerdì 17 gennaio con la celebrazione della Santa Messa solenne nel giorno della memoria liturgica, a cui hanno preso parte i priori Alex Latella e Lorenzo Volpi.

La benedizione degli automezzi, dei trattori e degli animali è stata impartita domenica 26 gennaio in piazza Guido Vallero, dove i priori hanno allestito e offerto un gustoso rinfresco, seguito da un pranzo eccellente e decisamente abbondante presso il Bar Trattoria Nazionale.

A chiusura dei festeggiamenti, la Santa Messa solenne celebrata la sera di domenica 26 gennaio e animata dalla “Corale Villareggese”. Quale segno ulteriore della concordia che anima le comunità, marita ricordare la sempre assidua presenza dei Primi Cittiadini Fabrizio Salono (Villareggia) e Marco Formia (Mazzè), con molti esponenti delle rispettive Amministrazioni. Giornate di raccoglimento, preghiera e riflessione sul valore del lavoro umano (anche sugli animali amici dell’uomo, suoi compagni nella quotidiana fatica) nelle quali è riecheggiato l’insegnamento di San Giovanni Paolo II:

“Il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso, il suo soggetto” (cfr. Laborem Exercens, 1981)

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Ma chi è stato, in questo mondo, sant’Antonio abate?

Don Alberto ne ha tracciato un profilo nelle omelie predicate in questi giorni: lo riproponiamo di seguito con l’aggiunta di qualche dettaglio.

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Considerato il fondatore del monachesimo cristiano, Antonio nacque nel 251 a Coma, villaggio situato vicino ad Eracleopoli, in Egitto, in una famiglia benestante e devota. Venne sin da piccolo educato cristianamente dai genitori, ma rimase orfano a circa 20 anni, con la responsabilità di prendersi cura della sorella minore e di amministrare l’ingente patrimonio familiare.

Fortemente attratto dall’insegnamento che Gesù impartì al giovane ricco («Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e donalo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi», cfr. Mt 19,16-26), decise di lì a poco di vivere secondo l’esempio degli anacoreti che conducevano una vita di penitenza nei dintorni dei villaggi egiziani, dedicandosi alla preghiera e al lavoro (un’anticipazione del “ora et labora” alla base della futura Regola benedettina), in povertà e castità.

Distribuì dapprima i suoi averi ai poveri, tenendo per sé solo una piccola parte necessaria al sostentamento suo e della sorella. Ben presto, dopo aver affidato la sorella alle cure di una comunità di vergini, vendette anche la rimanenza e si ritirò nel deserto per dedicarsi completamente a Dio.

Usava del guadagno derivante dal lavoro solo lo stretto indispensabile a procacciarsi il cibo, donando il resto ai poveri.

Secondo la tradizione eremitica, il deserto è un campo di battaglia in cui l’eremita si misura con Satana: il “principe di questo mondo” si è ritirato nel deserto dopo l’avvento del cristianesimo ed è determinato a mantenervi la sua egemonia per esercitare incontrastato il suo potere.

Nel deserto, sant’Antonio abate condusse vita ascetica per 80 anni, durante i quali subì ogni sorta di tentazione demoniaca, sia spirituale che materiale (fu fisicamente aggredito più volte, anche da schiere di demoni che lo percuotevano fin quasi a morte). Vinse le tentazioni con la mortificazione del corpo e la preghiera.

A dispetto del suo vivere ritirato dal mondo, la fama di santità di Antonio non tardò a diffondersi (tornano qui alla memoria le parole che mons. Lorenzo Piretto pronunciò lo scorso novembre in

un’omelia – leggi qui –  per la festa patronale di san Martino di Tours a Villareggia:

«La santità cristiana», osservò, «ha caratteristiche di universalità, per la sua capacità di diffondersi ed espandersi al di là dei confini geografici»).

Giungevano al suo eremo cristiani desiderosi di una spiritualità profonda e di ritirarsi dal mondo per condurre una vita immersa nella contemplazione dei misteri divini. Il desiderio di solitudine lo spinse però ancor più profondamente nel deserto e ai suoi discepoli consentì di fargli visita una sola volta al mese.

Per un monaco, tuttavia, ritirarsi dal mondo non significa noncuranza per quanto accade nel mondo.

Antonio lasciò il suo eremo per confortare i cristiani di Alessandria, perseguitati dall’imperatore Massimino Daia (c.285 – 305); per sostenere il vescovo sant’Atanasio d’Alessandria (c.295 – 373), suo amico, discepolo e biografo, nella lotta contro l’eresia ariana; per consolare gli afflitti, ottenendo da Dio guarigioni e liberando gli ossessi; per istruire nuovi discepoli che, pian piano, diedero vita a due monasteri sulle due rive del Nilo.

Morì il 17 gennaio 356 all’età di 105 anni.

Per suo espresso desiderio, i suoi discepoli tennero segreto il luogo in cui venne sepolto.

Le sue reliquie, scoperte nel 561, giunsero nel 1050 circa in Francia, a La Motte St. Didier (oggi Saint-Antoine-l’Abbaye).

Qui venne costruita una chiesa in suo onore e presero ad affluire molti devoti per chiedere a sant’Antonio la grazia della guarigione da una malattia assai diffusa nel Medioevo, l’ergotismo (causata dall’ingestione di segale contaminata dal fungo Claviceps purpurea), chiamato “male di sant’Antonio” e ancora “fuoco di sant’Antonio”, soprannome in seguito attributo anche all’herpes zoster.

Venne fondato l’ordine dei Canonici Regolari di Sant’Antonio di Vienne – il primo ordine ospedaliero medievale, noto anche come Ordine Antoniano, unito all’Ordine di Malta nel 1774 e poi soppresso nel 1776 – e un ospedale nel quale gli ammalati di ergotismo trovavano conforto e cura.

Come emolliente per le piaghe provocate dal fuoco di sant’Antonio – e per il meno invasivo herpes zoster – veniva utilizzato principalmente il grasso dei maiali allevati dagli Antoniani per questo scopo e con il concorso gratuito dei fedeli: riconoscibili per il campanello legato al collo, i maiali potevano liberamente circolare per le strade, entrare nelle case e ricevere cibo.

Sì spiega così l’iconografia di sant’Antonio abate, accanto al quale è spesso raffigurato un maialino con al collo una campanella.

Il suo patrocinio si è progressivamente esteso dai soli maiali a tutti gli animali domestici e da stalla – che nel giorno della sua festa vengono condotti alla chiesa, o comunque radunati, per venire benedetti –, quindi ai mezzi agricoli e agli autoveicoli, anch’essi tradizionalmente benedetti durante le celebrazioni in onore del Santo, invocato anche contro varie malattie della pelle.

Nel testamento spirituale, dettato nell’imminenza della morte, disse ai suoi discepoli:

«Cercate di custodire con ogni cura il vostro zelo. Conoscete i demoni insidiosi. Avete visto come sono feroci e insieme deboli. Non temeteli dunque, ma respirate sempre Cristo, e credete in lui, e vivete come se doveste morire ogni giorno (…). Non abbiate rapporto con gli scismatici (…) giacché essi, insegnando altre cose, combattono Cristo, invece di sostenerlo. Cercate di unirvi sempre prima di tutto al Signore e poi ai santi, affinché dopo la vostra morte vi accolgano nei tabernacoli eterni».

Alcuni insegnamenti di sant’Antonio abate sono particolarmente inerenti al nostro vivere quotidiano ed al particolare momento storico:

«Non appesantirti del tuo peccato, neanche con il pretesto di fare penitenza. Perché se ti fissi sul peccato, non fai altro che mettere sempre al centro te stesso»

«Siamo grati al medico anche per il medicamento doloroso; di fronte al patire dobbiamo esser grati a Dio; qualunque cosa ci accada è per il nostro bene»

«Verrà un tempo in cui gli uomini impazziranno, ed al vedere uno che non sia pazzo, gli si avventeranno contro dicendo: “Tu sei pazzo!”, a motivo della sua dissomiglianza da loro»

Sancte Antóni, ora pro nobis.

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